Dietro una calma apparente, qualcosa sta cambiando

A una prima lettura i dati del Flexera 2021 State of the Cloud Report non sembrano portare grandi novità rispetto alla situazione dell’anno scorso… Ma a un’attenta analisi emergono diverse sfaccettature interessanti. Tutte, purtroppo, le problematiche che rimangono ancora aperte.

Non c’è dubbio che durante il 2020 il tragico arrivo del Covid-19 abbia portato a una forte accelerazione nell’adozione di soluzioni cloud a livello globale, in ogni territorio e generalmente in tutte le imprese di ogni settore e di ogni dimensione. Lo dicono tutti e lo testimonia anche la decima edizione del Flexera 2021 State of the Cloud Report, studio arrivato quest’anno alla decima edizione, realizzato in precedenza dall’organizzazione indipendente RightScale. Nell’edizione di quest’anno si presenta però un tangibile paradosso.

La forte accelerazione verso il cloud, e l’arrivo anche di molte nuove aziende che prima del 2020 non avevano ancora adottato il cloud, e magari non avrebbero mai pensato di farlo, invece di portarci a dei numeri completamente diversi rispetto a quelli degli anni precedenti, in realtà ci mostra una sorprendente stabilità. E quindi qui inizia la sfida per chi vuole analizzare il nuovo Report, tale paradossale stabilità è giustificata dai fatti o in realtà è un fenomeno che nasconde qualcosa di diverso?

In pratica se la ricerca del 2020 marcava un sostanziale distacco da quella del 2019, con diversi temi, come per esempio la tipologia di workload portati in cloud, che rappresentavano una vera e propria ‘fuga in avanti’, rispetto all’edizione dell’anno precedente, a una prima lettura le variazioni della nuova ricerca del 2021 risultano essere molto poche o comunque scarsamente significative.

L’interpretazione che possiamo dare è che in realtà nel 2020 si è prodotto a livello generale un meccanismo di compensazione tra chi già operava nel cloud prima dell’anno del Covid e chi invece ha iniziato a lavorarci solo perché obbligato da questa contingenza che ha ‘chiuso’ le aziende e convogliato massicciamente le persone verso il lavoro da remoto.

Le aziende che possiamo considerare le più ’esperte’, anche se si sono spinte più avanti nell’adozione del cloud, hanno però rallentato il ritmo e non hanno compiuto un nuovo balzo in avanti analogo a quello dell’anno prima. Le seconde iniziando il loro percorso nel 2020 hanno comunque proceduto con cautela e senza strappi in avanti, e quindi hanno inciso anche in modo sostanziale sui fenomeni descritti a livello generale provocando un ‘rallentamento’ sostanziale degli stessi. Inoltre, le aziende neofite si sono trovate di fronte a un mercato maturo con operatori dell’offerta – non solo cloud provider, ma anche system integrator – che ormai propongono comportamenti standard, presentate magari, a torto o a ragione, come ‘best practice’ ormai consolidate. Se quindi nel 2020 si è assistito a una importante fuga in avanti, nel 2021 i dati si sono consolidati sulle posizioni comunque elevate dell’anno scorso. E questo sia nel bene sia nel ‘male’.

A dispetto quindi di un mercato cloud che in valore continua a crescere, e continuerà ancora a crescere di molto nei prossimi anni, dal punto di vista dei ‘comportamenti’ delle aziende clienti possiamo dire di essere arrivati a un certo livello di maturità. Ma questo non significa assolutamente che i problemi che erano stati evidenziati negli anni scorsi sono stati risolti o stanno per esserlo… No semmai è l’opposto i problemi permangono intatti, come per esempio il caso dello ‘spreco di cloud’, destando poco interesse da parte sia dell’offerta, ma anche della domanda, e questo non è sicuramente un buon segno. In generale anche dove ci sono dei numeri che risultano stabili a quelli dell’anno scorso, l’analisi si fa comunque interessante perché mette in luce alcune tendenze. Sbaglierebbe quindi chi si facesse convincere da questo effetto ‘parallasse’ e interpretasse questa paradossale stabilità con un semplicistico ‘non è cambiato nulla e ormai il mercato cloud può essere considerato maturo’. Non bisogna farsi ingannare dall’apparenza, perché sotto la superficie le cose continuano a muoversi in modo interessante.

Una stabilità solo apparente

Iniziamo quindi a vedere cosa è cambiato e cosa è rimasto uguale nei dati emersi in questo Flexera 2021 State of the Cloud Report, realizzato per questa edizione intervistando un campione di 750 manager appartenenti ad aziende di tutto il mondo nei mesi di ottobre e novembre 2020.

Il campione di questo report non ha più dubbi. Ormai ha iniziato il suo percorso deciso nel cloud, e difficilmente pensa che possa tornare indietro: ‘Cloud is here to stay’, direbbero gli americani. Se nell’edizione del 2019 il modello che descriveva il livello di maturità del campione era rappresentato da cinque voci e comprendeva anche gli intervistati che avevano dichiarato di ‘non pensare’ al cloud e di avere questa opzione solo ‘in valutazione’… Nel campione di quest’anno le categorie esposte da Flexera sono solo tre: coloro che nel 2020 hanno almeno avviato il primo progetto cloud (19%), coloro che dopo il primo progetto stanno allargando il cloud con altre iniziative (22%) e coloro che del cloud ne fanno un utilizzo consistente (59%). Preso per buono, questo dato di fatto significa che il cloud è ormai entrato nell’orizzonte concreto di tutte le aziende, non è più solo un’ipotesi, non più solo un’opzione da prendere in considerazione oppure no, ma una strada che bisogna percorrere, ormai da considerare quasi come obbligata.

Ammesso che sia veramente così, e forse in Europa e in Italia la situazione potrebbe essere più in ritardo, la ricerca sembra quindi voler forzare un po’ la mano ai recalcitranti, poiché tra le righe si può leggere un forte monito: chi non è ancora convinto che sia necessario andare in cloud, e chi lo sta ancora valutando, sta perdendo il treno dell’innovazione ed è destinato a diventare marginale nel suo business e nei confronti di clienti e fornitori che un domani, magari anche molto presto, gli chiederanno di poter avere i dati che li riguardano più vicini e più facilmente fruibili rispetto a quanto lo sono ora. E questo oggi si può fare con molta semplicità utilizzando il cloud.

Lo scenario di utilizzo del multicloud è quest’anno al 92%, numero praticamente uguale all’anno scorso, mentre l’hybrid cloud si abbassa all’82%, 87% nel 2020. Il numero medio di cloud utilizzati sia pubblici che privati da un’azienda è 8,6, mentre l’anno scorso era 7,3.

Come si fa l’hybrid cloud nel 2021

Analizzando la tipologia di hybrid cloud dichiarata dagli intervistati emerge che, se nel report dell’anno scorso il 53% del campione aveva dichiarato che il suo hybrid cloud era realizzato da diversi cloud privati e da diversi cloud pubblici, in quella di quest’anno il dato è sceso di ben 10 punti al 43%. Questo a beneficio del fatto che sono cresciute invece le risposte relative alla voce ‘hybrid cloud costituito da diversi cloud privati e da un cloud pubblico’, oggi al 13%, l’anno scorso era al 7%, e da ‘hybrid cloud costituito da un cloud pubblico e da un cloud privato’ che registra l’11%, anche questa voce l’anno scorso era al 7%. A rimanere invariato è il 33% che invece dichiara che il proprio ‘hybrid cloud risulta costituito da un cloud privato e da più cloud pubblici’.

L’arretramento dell’hybrid cloud fatto con diversi cloud sia pubblici che privati, può essere spiegato in due modi. Forse qualcuno potrà anche pensare che in diverse aziende qualcuno ha iniziato un’operazione di razionalizzazione volta a semplificare la gestione di ambienti cloud diventati complessi e anche costosi… Ma forse invece questo dato ci dice che chi è arrivato all’hybrid cloud solo nel 2020, ha iniziato con cautela prima a configurare ambienti con un cloud pubblico e un cloud privato, e poi semmai a compiere un passo in più, mantenendo un solo cloud pubblico e iniziando invece ad aggregare più cloud privati. Tra le due spiegazioni si ritiene più credibile la seconda, e tra poco vedremo perché, anche se non è escluso che qualche azienda durante il 2020 abbia cercato di razionalizzare le sue attività, e le sue spese, in cloud.

Secondo noi l’ingresso nel campione della ricerca di aziende che fino al 2020 non operavano, o hanno operato poco, nel cloud hanno determinato a livello generale l’arretramento della configurazione ‘più cloud privati e più cloud pubblici’.

Sono un po’ aumentate invece le aziende che hanno investo in tool di gestione focalizzati su diverse problematiche degli ambienti multicloud. Nella ricerca di quest’anno il 42% dichiara di aver investito in strumenti dedicati a tenere sotto controllo i costi del multicloud (33% l’anno scorso); il 39% in tool di sicurezza (sempre 33% l’anno scorso); il 33% in tool di gestione del multicloud (32%); il 33% in tool di governance del multicloud (29%). Ed è probabile che le aziende che hanno compiuto passi in queste direzioni siano però solo state quelle che sono presenti nel cloud da prima del 2020.

La migrazione rimane un capitolo difficile da affrontare

Tra i problemi irrisolti rimangono sicuramente aperte anche nel 2021 tutte le sfide che le aziende devono affrontare nel processo di migrazione al cloud. Al primo posto si conferma la voce ‘difficoltà nella verifica della fattibilità della migrazione delle applicazioni in relazione ai loro legami con il sistema informativo aziendale’. Questa è però la voce che rispetto all’anno scorso è calata sensibilmente: nel 2020 era il 63% ora è il 51%. Il miglioramento c’è stato, ma questo problema rimane aperto ancora per la maggioranza del campione.

A seguire le altre voci si dimostrano più stabili o, addirittura, in crescita: ‘difficoltà nella verifica dell’adeguatezza delle risorse tecnologiche coinvolte’ al 48% (47% l’anno scorso); sale al 44% dal 41% il ‘difficoltà nel verificare i costi di gestione tra on-premise e cloud’; al 44%, contro il 39% del 2020, ‘difficoltà nell’individuare le migliori istanze che possono andare in cloud’; al 40%, rispetto al 35%, il tema del ‘bring your own license’; e al 39%, rispetto al 37%, ‘difficoltà nell’ottimizzare i costi nel post migrazione’.

Insomma, forse per il problema numero uno qualcuno ha trovato delle soluzioni e le sta mettendo in pratica, ma tutte le altre sfide relative al processo di migrazione permangono o sono lievemente accentuate. Nessun progresso significativo in generale su questo fronte, solo un miglioramento, comunque significativo ma non risolutivo, per quanto riguarda la verifica di fattibilità della migrazione.

Ma le sfide che bisogna affrontare nel cloud non sono solo relative al processo di migrazione. E qui, purtroppo, le cose sono veramente quasi immutate rispetto alla ricerca dell’anno scorso.

Le sfide che rimangono aperte

La sfida principale rimane la sicurezza all’81%, come l’anno scorso; segue la gestione della spesa in cloud 79%, rimasta uguale; governance 75% (77%); mancanza di risorse/esperti 75% (77%); compliance 75% (74%); gestione del licesing software 73%, uguale; gestione degli ambienti multicloud 72%, uguale; migrazione al cloud 71%, uguale. In pratica non è cambiato niente e le sfide, che significa anche affrontare problemi dalla non facile soluzione, sono sempre quelle e rimangono inesorabilmente aperte.

Così come in pratica rimangono uguali tutte le problematiche di gestione del software, anche sotto il profilo dei costi: capire le implicazioni legate ai costi delle licenze del software in cloud è oggi al 55% (56% nel report 2020); essere sicuri di usare correttamente le regole sulle licenze 48% (49%); complessità delle regole sulle licenze nei public cloud 46% (48%); essere sicuri di non utilizzare licenze in eccesso 45%, uguale nel 2020; scoprire quale software è utilizzato in cloud 35% (39%); sapere quando determinate licenze non sono più utilizzate in cloud 39% (33%). Miglioramenti quasi impercettibili e anche qualche arretramento. Infine, un altro problema che permane costante: lo spreco di cloud. Quest’anno si conferma al 30%, come l’anno scorso, mentre nel 2019 era al 25%. Qui però val la pena ritornare a spiegare bene cosa si intende per ‘spreco di cloud’ e cosa si può presumere da un dato del tutto ‘empirico’. I ricercatori hanno infatti chiesto a ogni intervistato: ‘Può quantificare quant’è la percentuale di risorse cloud che a sua sensazione l’azienda ha acquistato, ma che in realtà non sta utilizzando?’. Il 30% è quindi una media tra tutti i rispondenti, ma è anche un numero sottostimato, perché si parla di ‘sensazione’ e non di misura reale certificata da un numero. Potrebbe anche essere che la situazione sia migliore di quella che si crede, ma i ricercatori, come già nelle due edizioni precedenti, sono più propensi a pensare che parlando di sensazioni, la realtà sia anche peggio e quindi suggeriscono di aggiungere al 30% un altro abbondante 5% per arrivare a una foto sullo spreco di cloud più realistica. Se le cose stanno ancora così, significa che per molte aziende non solo che più di un terzo della spesa in cloud è del tutto ingiustificata, ma che è stato fatto poco o niente per invertire la rotta rispetto agli anni scorsi.

Come si può contrastare lo ‘spreco di cloud’

Per controllare i costi del cloud si possono adottare diverse soluzioni. La prima è quella di usufruire dei programmi di sconto e risparmio messi a disposizione dai cloud provider stessi. A questi possono poi essere affiancati anche dei tool di gestione che permettono di agire con determinate pratiche atte a raggiungere lo scopo di evitare gli sprechi di cloud, ma se si pensa che l’investimento in tali soluzioni sia troppo pesante o che questi strumenti siano difficili da utilizzare, si può anche optare per una soluzione ‘manuale’. Ossia affidare a un tecnico del proprio staff IT il compito di intervenire manualmente, come per esempio ‘spegnere’ quelle istanze rimaste aperte ma che risultano inutilizzate sui cloud dei diversi fornitori.

Anche se continua a essere molto praticata, come vedremo dai dati, quest’ultima è però una finta soluzione. Per prima cosa perché comunque anche il tecnico a cui è stato affidato questo compito ha un costo; seconda cosa perché se insieme a questo compito ne ha altri mille da fare, magari più prioritari e importanti per supportare il business aziendale, questo lavoro verrà fatto saltuariamente e non in modo strutturato e sistematico, vanificando quindi gli obiettivi di risparmio che vi eravate posti.

A controprova del fatto che poco si è realizzato sul fronte della diminuzione dello spreco di cloud, ci sono i numeri che certificano spostamenti minimi tra la situazione del 2021 e quella del 2020 per quanto riguarda sia l’adozione di programmi di sconto dei cloud provider che di utilizzo di strumenti focalizzati sul controllo dei costi del cloud o la messa in opera di attività manuali volte a raggiungere lo stesso risultato.

Vediamo i numeri. Per quanto riguarda i programmi di sconto e risparmio disponibili in AWS nel 2021 solo il 52% del campione si affida al programma AWS Reserved Instaces, era il 53% nel 2020. Il 44% utilizza AWS Enterprise Discount Program (37% nel 2020); AWS Savings Plan sempre 44% (30%); AWS Stop Instances 37% (38%), mentre la negoziazione ad hoc dello sconto è utilizzata oggi dal 26% del campione contro al 20% del 2020. Nel caso di Azure, invece, oggi il programma Enetrprise Agreement è utilizzato dal 49% del campione (51% nel 2020); Azure Reserved Instances dal 46% (43%); Azure Hybrid Benefits dal 37% (30%) e Azure Low Priority VMs 28% (24%).

Situazione migliore per quanto riguarda invece le opzioni di sconto e risparmio offerte da Google, dove le due opzioni in campo partono già da un certo grado di personalizzazione. Gli sconti prefissati dietro a ‘impegni’ di utilizzo sono utilizzati dal 61% del campione, era il 43% nel 2020; mentre la negoziazione ad hoc dal 48%, nel 2020 18%. Sicuramente la politica di offerta più aggressiva impostata da Google Cloud per conquistare fette di mercato rispetto agli altri due player più consolidati ha avuto un peso determinante nella crescita di questi numeri.

Veniamo invece al tema delle best practice che si possono mettere in campo per contrastare lo spreco di cloud utilizzando sia strumenti automatici che operando manualmente.

Quest’anno solo il 49% del campione utilizza soluzioni automatizzate per spegnere i workload aperti sul cloud dopo un certo numero di ore di inutilizzo; l’anno scorso questo valore era il 51%, siamo quindi di fronte a una lieve regressione che potremmo però interpretare anche come stabilità. Il 35% del campione svolge oggi questa pratica manualmente, mentre nel 2020 il dato era il 27%.

Per quanto riguarda il giusto dimensionamento delle istanze, il 48% del campione del 2021 lo gestisce in automatico (49% nel 2020) e il 40% in manuale (uguale l’anno scorso). Fissare una data precisa per chiudere un’istanza cloud, lo fa oggi in modo automatico il 40% del campione (uguale nel 2020) e in modo manuale un altro 42% (39%). Insomma, guardando alle tre voci principali, le cose non sono cambiate di molto e purtroppo rimane costante da una ricerca all’altra anche la quota di chi invece non fa niente.

Come già detto questi dati riflettono anche del fatto che il campione della nuova ricerca di quest’anno vede per la prima volta una quota consistente di aziende che fino al 2020 non aveva ancora operativamente scelto di operare in cloud. Quindi siamo in realtà convinti del fatto che la stabilità di questi numeri sia dovuta a quell’effetto parallasse di cui dicevamo all’inizio, ossia il meccanismo di compensazione generato dalle due spinte ‘opposte’ che arrivano dalle due tipologie di aziende utenti. Chi è già nel cloud da tempo ha sicuramente aumentato l’utilizzo di pratiche di controllo dello spreco di cloud, e chi invece è arrivato da poco probabilmente non si è ancora posto il problema o lo sta iniziando ad approcciare solo ora.

Utilizzo dei container

Microservizi e container sono a tutti gli effetti quei driver tecnologici che hanno alimentato il successo del cloud, ma anche il sempre maggiore utilizzo di cloud porta sempre più successo a container e microservizi. Questo circolo virtuoso continua ad autoalimentarsi per le diverse semplificazioni che container e microservizi hanno portato a diverse problematiche di gestione delle applicazioni proprio anche in vista, per esempio, della migrazione di queste, o di loro parti, nel cloud.

I dati di raffronto tra la situazione del 2021 e quelle del 2020 sembrano addirittura contraddire quello che è invece uno stato di fatto che oggi viene vissuto da chi lavora sul cloud da tempo. Crediamo che questa apparente contraddizione nasca proprio anch’esso da quell’errore di parallasse di cui abbiamo appena parlato, e forse proprio questi dati così incoerenti sono la prova dell’esistenza dei due forti fattori opposti che lo determinano.

Nel 2020, il sistema di container più utilizzato dal campione era Docker al 65%, mentre un altro 14% dichiarava che ne aveva pianificato l’utilizzo a breve. Nella situazione di quest’anno, invece, l’utilizzo di Docker è sceso al 53%, e la sua pianificazione salita al 21%. Non essendoci avanzamenti generalizzati per gli altri sistemi o servizi container, questo apparente ‘crollo’ del 12% registrato da Docker può essere spiegato solo con il fatto che il campione è stato allargato ad aziende appena arrivate nel cloud, e quindi ancora scarsamente interessate alla tematica container. Tra l’altro la controprova è proprio data dal fatto che invece chi dichiara di aver previsto un utilizzo a breve dello strumento è cresciuto di ben 7 punti. La somma dei due fattori porta poi a un risultato praticamente equipollente: il 74% per il 2021 contro il 79% del 2020.

Ma vediamo gli altri sistemi e servizi container utilizzati dagli utenti cloud. Il servizio di container fornito da AWS, ECS/EKS, è utilizzato oggi dal 51% del campione (54% nel 2020) e pianificato da un altro 23% (24% nel 2020). Kubernetes è utilizzato dal 48% (58%) e pianificato dal 25% (22%), mentre Azure Container Service è utilizzato dal 43% (46%) e pianificato dal 25% (26%).

Come si vede anche in questi casi emergono delle situazioni apparentemente contradditorie… Una cosa interessante però emerge anche in questo contesto. Anche quest’anno si conferma la forza dei servizi offerti dai cloud provider che ormai contano quasi come i due sistemi container più utilizzati al mondo (Docker e Kubernetes). Questo è soprattutto dovuto al fatto che sono le società di più ridotte dimensioni (sotto i 1.000 utenti secondo la classificazione di Flexera, non certo identificabili con il concetto italiano di PMI) a preferire soluzioni container a servizi rispetto a quelle nel formato classico a ‘prodotto’. Se nel 2020 l’utilizzo nelle aziende più piccole vedeva ancora primo Docker al 64% seguito da AWS ECS/EKS al 49%, quest’anno la situazione si è ribaltata: AWS ECS/EKS è al 52%, mentre Docker è al 48%.

Utilizzo di cloud pubblici

A dispetto delle distinzioni emerse nel campione tra chi usa il cloud da più tempo e chi invece è partito nel 2020, una cosa è certa: continua a crescere l’utilizzo di cloud pubblici. Non è più una corsa come quella alla quale abbiamo assistito negli anni scorsi, ma una progressione continua che sta mettendo in evidenza qualche possibilità di cambiamento.

Al primo posto dei cloud pubblici attualmente utilizzati c’è saldamente ancora AWS che nel 2021 è in attività presso il 77% del campione (76% nel 2020) in sperimentazione presso un altro 10% (12%) e pianificato per essere utilizzato a breve da un restante 4% (5%). In totale 91% (93%).

Azure invece è cresciuto molto e sta insidiando il primato storico di AWS. Oggi è utilizzato da 73% del campione, solo 4 punti sotto alla società di Jeff Bezos, mentre nel 2020 era al 63%. Una crescita di 10 punti in un anno non è cosa da poco. Risulta in sperimentazione presso il 12% del campione (20% nel 2020), e in pianificazione da un altro 5% (uguale l’anno scorso). In totale 90% (88%).

Un progresso più ampio lo ha registrato invece Google Cloud oggi al 47%, nel 2020 era al 35% (più 12 punti), mentre risulta in sperimentazione dal 23% del campione (24%) e in pianificazione dal 9% (12%). In totale 79% (71%).

Il cloud VMware su AWS è invece oggi utilizzato dal 24% (17%), in sperimentazione dal 20% (22%) e in pianificazione dal 10% (11%). In totale 54% (50%).

Oracle Infrastructrure Cloud è utilizzato dal 29% (17%, e quindi in dodici mesi crescita di 12 punti), in sperimentazione dal 15% (13%) e in pianificazione dal 9% (uguale nel 2020). In totale 53% (39%).

IBM Public Cloud in utilizzo presso il 24% (13%, in dodici mesi crescita di 11 punti), in sperimentazione dal 19% (15%) e in pianificazione dal 7% (8%). In totale 50% (36%).

Alibaba Cloud, che però con la sua offerta non copre ancora tutto il mercato globale, in utilizzo presso il 12% (7%), in sperimentazione dal 13% (12%) e in pianificazione dall’8% (7%). In totale 33% (26%).

Cosa si muove sotto la superficie

Le dinamiche di crescita di Azure e Google Cloud sono molto più veloci di quelle di AWS, e non è detto che il prossimo anni magari il primato sarà ancora della società di Jeff Bezos. Il servizio cloud pubblico di Microsoft, infatti, potrebbe anche conquistare la vetta. Un cambio storico che, se si verificherà, sarà comunque sul filo del rasoio, e dovuto a pochi punti di percentuale in più o in meno.

Ma dietro seguono dimostrando molta vivacità tutti gli operatori che fino a ieri sono rimasti all’ombra dei due ingombranti player principali. Guardando al totale, che comprende chi utilizza un determinato servizio cloud, chi lo sta sperimentando e chi lo sta pianificando, Google Cloud è ormai al 79%, e ha recuperato 8 punti in dodici mesi… Ma sono molto più importanti da segnalare la crescita delle iniziative cloud dei vendor ‘tradizionali’: IBM cresce di ben 14 punti, Oracle di 11, e la platea dei loro utilizzatori lambisce o va oltre ormai il 50% delle aziende. In crescita più moderata, solo 4 punti in più, anche VMware su AWS.

Forse questo è uno dei fattori che più di ogni altro conferma come la ‘stabilità’ che può emergere da una frettolosa lettura dell’edizione di quest’anno della ricerca sia veramente del tutto apparente. Se i top player sono ormai a qualche passo dalla vetta, ma è improbabile che possano ancora crescere di molto, dietro di loro crescono in modo interessanti tutti gli altri operatori. Non abbiamo dati e strumenti per capire se questi siano stati scelti da aziende che erano in cloud già da prima del 2020 o da chi si è mosso solo più recentemente. Ma certamente sotto un’apparente calma in superficie, qualcosa di importante sta succedendo.

Il campione del Report

La ricerca Flexera 2021 State of the Cloud Report ha coinvolto 750 persone che sono state tutte intervistate individualmente nei mesi di ottobre e novembre 2020.

Queste persone lavorano con ruoli ‘tradizionali’ all’interno dell’IT delle loro aziende al 48%, sono degli esperti di architetture cloud al 33%, provengono dallo sviluppo all’11% e dal business all’8%. Hanno invece un livello operativo al 47%, sono dirigenti o manager al 26%, sono degli executive al 14%, hanno altri inquadramenti al 13%.

La casa madre delle aziende di riferimento è situata al 65% in America (USA, Canada, Messico e Brasile), in Europa al 21%, nell’Asia Pacifica al 12% (Australia, Giappone, India, Singapore e Sud Corea) e al 2% nel resto del mondo. Come segnalato già negli articoli realizzati sui report Flexera delle scorse edizioni il campione risulta molto sproporzionato sul fronte America, e questo sicuramente influenza i risultati finali della ricerca. Rimane comunque valido come fonte per individuare invece trend che nel tempo andranno a fattor comune in tutti i Paesi a livello globale.

Per quanto riguarda invece i settori industriali coinvolti: i servizi tecnologici sono al 19% insieme ai servizi finanziari; software e hardware al 17%, il settore sanitario al 9%, retail e commercio elettronico 6%, governo ed educazione 4%, industria produttiva 3%, telecomunicazioni 3%, ‘altri’ 20%. Anche in questo caso il campione risulta troppo sbilanciato verso i servizi tecnologici, software e hardware e commercio elettronico ed è sicuramente sottorappresentato, soprattutto facendo riferimento all’Italia, il settore manifatturiero. Vale quindi la stessa considerazione appena fatta a proposito della distribuzione geografica del campione.

Infine, la suddivisione del campione per dimensioni delle imprese vede: al 50% imprese superiori ai 5.000 dipendenti; 35% imprese tra i 1.001 e i 5.000 dipendenti (la somma dei due dà in complesso alle imprese definite come enterprise l’85% di rappresentanza del campione totale) e le imprese sotto i 1.000 dipendenti (non certo una classificazione coincidente con il concetto di PMI europea e, soprattutto, italiana) il restante 15%.



Ruggero Vota

Con una solida formazione informatica e dopo un’esperienza triennale in software house, nel 1986 inizia l’attività giornalistica su riviste del settore ICT, mensili e settimanali. Dal 2012 è Caporedattore delle riviste ICT di Soi...

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