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Open source e cloud, una convergenza irresistibile

Come sta evolvendo il modello di business e come la sovranità ne sta consolidando il ruolo

La storia dell’open source ha un prima e un dopo. Prima, i fornitori di software proprietario potevano sostenere che solo pagare licenze può remunerare gli investimenti necessari per produrre software di qualità. Cosa ci si poteva aspettare da software gratuito? Era solo una minaccia alla qualità e al business. Poi, un ecosistema di soluzioni open source si dimostrò alternativa buona almeno quanto i principali sistemi operativi server: Windows e i vari UNIX. Si trattava di Linux, naturalmente: nel 2000 lo stesso Steve Ballmer lo riconobbe concorrente “molto presente in alcuni mercati server”.

Oggi quel sistema operativo domina il cloud: la stessa Microsoft dichiara che la maggioranza dei core di processori nel suo cloud, Azure, fa girare workload Linux, e su tutti i cloud girano soluzioni open source a centinaia, infrastrutturali e applicative. I più grandi fornitori di software proprietario e system integrator mondiali ne lodano le capacità di innovazione e personalizzazione, contribuiscono alle comunità open source e offrono anche soluzioni open.

Va detto, il successo dell’open source è grazie al cloud, che ha abbracciato l’open source fin dall’inizio: oltre a Linux, che sostituì Sun Solaris come “sistema operativo del web”, i due web server più diffusi oggi, Nginx e Apache, sono open source. Secondo alcuni, il cloud esiste solo grazie all’open source: sono state la sua flessibilità e la capacità di innovazione delle sue comunità a permettere di superare i data center con macchine virtualizzate su hypervisor proprietari e le proposte di “utility computing” dei grandi produttori hardware dei primi anni 2000, portando ai primi veri servizi cloud pubblici, quelli di Amazon nel 2006. Basta pensare a Kubernetes, software per orchestrare e gestire “contenitori” di servizi digitali. È per gestori simili che il cloud è scalabile, la sua caratteristica qualificante. Google lo ha sviluppato, poi reso disponibile come progetto open source trasferendolo a Cloud Native Computing Foundation (CNCF), una affiliata di Linux Foundation che ora conta centinaia di soci.

Il modello di business dell’open source

Nel mondo digitale di oggi, dove il cloud, magari ibrido, è la regola, come si sostiene l’open source? Da dove vengono i soldi che tengono vive e aggiornate infrastrutture così grandi, diffuse e critiche per la nostra vita quotidiana?

Ci sono sempre, importanti, i finanziamenti dei grandi produttori di hardware e software verso fondazioni e comunità che sviluppano soluzioni open. Per i singoli operatori commerciali che partono da queste soluzioni per proporne di proprie, il modello di business principale è sempre quello su cui si basano le distribuzioni a pagamento di Linux: fornire una configurazione già pronta gratis, ben più facile da usare del software open scaricato dalle librerie di sorgenti, e a pagamento i servizi di supporto tecnico approfonditi, necessari a tutte le organizzazioni che devono offrire servizi digitali stabili e affidabili, “enterprise”.

Lo conferma per esempio Nextcloud, una piattaforma pienamente open source nata per gestire file, archiviarli in cloud, modificarli in collaborazione e incontrarsi virtualmente, che oggi è arrivata a proporsi come alternativa alle grandi proprietarie come Google e Microsoft. Secondo Frank Karlitschek, CEO, i produttori di piattaforme open source offrono supporto a pagamento per i grandi clienti e soprattutto per system integrator e rivenditori a valore aggiunto che lo usano per realizzare soluzioni “enterprise”, personalizzarle e gestirle con e per i propri clienti, anche medi. I clienti più piccoli possono accontentarsi della soluzione base e del supporto gratuito della comunità degli utenti.

Il cloud, segnala Karlitschek, abilita però anche un nuovo modello di business riservato ai grandissimi: gli hyperscaler hanno tutte le risorse e competenze necessarie per offrire soluzioni open source di grande successo senza pagare il supporto. Quando una soluzione open è così rinomata che i clienti ne cercano il marchio anche comprandola dai grandissimi operatori, emerge per la comunità un’altra fonte di reddito: l’operatore cloud paga il titolare del marchio open per poterlo citare nel suo catalogo.

Variazioni e sfumature del modello sul mercato

Se quello dei servizi a pagamento è il tema base, le variazioni sono moltissime. In generale, i grandi fornitori globali di software proprietario, nati magari anche decenni prima dell’open source, procedono normalmente in tre modi: sostengono progetti open source propri, contribuiscono a comunità esterne delle quali usano i prodotti e offrono soluzioni open source a complemento delle proprie.
Oracle fa evolvere progetti come Java, MySQL, Oracle Linux e GraalVM, partecipa a iniziative come Kubernetes, Apache Kafka, Spark, Terraform e Fn Project. È Platinum Member della CNCF, per tre anni consecutivi principale contributore al kernel Linux. A pagamento, offre edizioni enterprise e supporto tecnico per prodotti open, e propone servizi cloud correlati attraverso la propria piattaforma Oracle Cloud Infrastructure (OCI).

Tra i benefici per sé stessa e per l’ecosistema sottolinea una maggiore interoperabilità, l’adesione a standard aperti che favoriscono l’innovazione e una significativa riduzione dei costi.

SAP rivendica di credere da sempre nella forza dell’innovazione collaborativa: dai suoi primi software, basati su licenze source-available, fino agli attuali progetti open source cloud-native. Per loro, l’open source favorisce la condivisione di idee, codice e obiettivi comuni. Per questo, SAP rende accessibili come open source parti fondamentali delle sue soluzioni, permettendo a community, clienti e partner di costruirvi sopra soluzioni utili per tutti. Un esempio è OpenUI5, un framework per sviluppare applicazioni web, che facilita l’integrazione con la tecnologia SAP ed è rilasciato con licenza Apache 2.0.

Liferay, fornitore di una “Digital Experience Platform”, chiama “open core” il modello oggi prevalente, che adotta: una versione community gratuita e aperta, con tutte le funzionalità essenziali, e una enterprise con caratteristiche avanzate, SLA garantiti e supporto tecnico. Questo approccio consente alle aziende di sperimentare e personalizzare la piattaforma, per poi evolvere verso soluzioni più strutturate quando crescono le esigenze operative.

Reevo, un cloud provider europeo dalle radici italiane, focalizzato da più di vent’anni su soluzioni infrastrutturali e di sicurezza, offre sia soluzioni proprietarie, anche SaaS, sia open. Ha scelto l’open source per una distribuzione Kubernetes certificata CNCF, con tre servizi a pagamento: il supporto enterprise per chi voglia usarla in autonomia, un servizio di esercizio Reevo su infrastruttura del cliente, e infine uno PaaS, tutto Reevo.

I fornitori di servizi infrastrutturali, che sull’open source si basano, sono necessariamente aperti verso di esso.

Aruba, tra i più maturi in Italia, contribuisce all’ecosistema open source e ne riceve innovazione, competenze e soluzioni, tramite il centro di competenza ArubaKube, uno strumento concreto per lavorare fianco a fianco con community globali, condividere soluzioni, contribuire agli standard e ottimizzare tempi e costi della ricerca. È anche un modo per attrarre e trattenere talenti, sempre più interessati a tecnologie aperte e progetti ad alto impatto, e facilitare la partecipazione a bandi europei e consorzi internazionali, ampliando le possibilità di collaborazione e finanziamento. Infine, consente di costruire ecosistemi interoperabili, che evitano il lock-in e offrono ai clienti maggiore libertà di scelta.

Anche Mediterra, nuovo operatore di data center che mira a sviluppare infrastrutture regionali all’avanguardia fuori dai poli principali di ciascun Paese, come la Lombardia in Italia, considera le soluzioni open source fondamentali per sé stessa oltre che per i suoi clienti. Sta sviluppando con questo modello la piattaforma abilitante per integrare nei propri poli i servizi digitali complementari di clienti diversi: infrastrutturali e applicativi, di connettività e di intelligenza artificiale.

I grandi e medi system integrator sono da tempo più che aperti a queste soluzioni, per loro ormai strategiche: alcuni clienti le chiedono, ad altri le raccomandano loro.

Exprivia, italiano, integra l’open source in numerose soluzioni digitali. Utilizzano tecnologie come Kubernetes, Docker, Java, GitLab e Python per sviluppare piattaforme scalabili, sicure e ad alte prestazioni. Si dimostrano efficaci nei progetti per i clienti, oltre che nell’esercizio delle soluzioni e nella ricerca, come Redmine per gestire progetti e attività di manutenzione.

Diego Barbarani, CEO di gway, conferma che anche questa società di R1 Group, dedicata alla consulenza, ai servizi applicativi e al governo dei sistemi in esercizio, basa il suo modello di business open source sui servizi a valore aggiunto: supporto, consulenza, hosting e funzionalità premium.

DXC, globale, con un team specializzato di oltre 50.000 persone al mondo, usa numerosi stack open source consolidati, infrastrutturali e applicativi che permettono di adattare, scalare e innovare in modo personalizzato. L’obiettivo per loro non è spingere il cloud a ogni costo, ma guidare ciascuna organizzazione nella scelta della piattaforma giusta, al momento giusto, per il carico giusto.

Open source e sovranità digitale

Un fattore significativo a favore dell’open source, sempre più importante per l’economia e la politica, in particolare in Europa, è quello della sovranità digitale. Lo segnalano operatori di tutti i tipi. Cristina Caffarra per EuroStack, iniziativa senza scopo di lucro per una strategia industriale di valorizzazione dell’offerta europea, sottolinea che l’open source è essenziale per sostenere in Europa le competenze necessarie a sviluppare servizi digitali di avanguardia.

Ancor più deciso è Vito Baglio di CSI Piemonte, società in house e partner tecnologico di oltre 135 Pubbliche Amministrazioni italiane, che ha sviluppato soluzioni completamente open source, compresa una piattaforma cloud infrastrutturale adottata anche da ISV SaaS commerciali. Per Baglio sviluppare e far evolvere soluzioni open source vuol dire pagare “stipendi invece di licenze”, consentendo anche ad amministrazioni piccole e quindi ai territori di sviluppare, condivisi, profili professionali altrimenti inaccessibili.

Tutto bene, quindi, per l’open source? Resta un ostacolo importante per gli utenti finali: servono persone molto qualificate per gestire e personalizzare in proprio soluzioni open source. Chi eroga servizi con risorse limitate, spesso decrescenti, come le organizzazioni senza scopo di lucro e le Pubbliche Amministrazioni, spesso fatica ad ingaggiarle. Molte tra le piccole, anche con servizi IT ben strutturati e attente ad aiutarsi l’un l’altra, preferiscono affidarsi sistematicamente a software a pagamento. Altre ben più grandi hanno visto ridursi il personale IT proprio durante la trasformazione digitale, e ora migrano da versioni community del software open che avevano personalizzato in casa a quelle enterprise, o verso software proprietario.

Cloud, Linux, Open Source, sovranità digitale, Unix


Specialista di IT Governance - Comune di Mil...