I fattori psico-sociali del lavoro agile
Oltre alla tecnologia, quali sono gli elementi da tenere in considerazione prima di adottare questa nuova modalità?
Cosa sappiamo in concreto dello smart working? Tutto, sotto il profilo delle tecnologie, ma niente, o comunque molto poco, su tutto il resto. Ossia: qual è l’impatto che lo smart working ha sulla vita delle persone, sia quella professionale che quella privata, visto che il fenomeno mette spesso in ‘co-abitazione’ i due mondi? Si riesce veramente a conciliare lavoro e famiglia, come promesso dai fautori di questo nuovo modello? Oltre ai tanti benefici attesi, ci sono delle criticità che è bene tener presente? Lo smart working dà più soddisfazione al lavoratore che ha scelto di operare in questo modo rispetto alla modalità tradizionale?
Anche se non si conosce il numero esatto di persone che oggi in Italia lavorano nelle modalità dettate dalla Legge n. 81 del 2017, quella che ha introdotto nel nostro Paese il lavoro ‘agile’, sono sicuramente diverse decine di migliaia i lavoratori coinvolti in questa nuova modalità di lavoro a distanza. Siamo però convinti che sono sicuramente molte di più le persone e le aziende che vogliono saperne di più prima di compiere determinate scelte.
Non esiste oggi una guida esaustiva sul tema, ma ad avvicinarsi per capire il fenomeno smart working in modo più compiuto è stato un gruppo di docenti dell’Università di Modena e Reggio Emilia e dell’Università di Bologna che ha pubblicato a fine 2018 il volume ‘Smart working: una prospettiva critica’ edito da Massimo Neri – TAO Digital Library, Bologna (www.taoprograms.org). Dal libro proponiamo qui di seguito un estratto significativo del capitolo ‘Smart working e fattori psico-sociali’ realizzato da Salvatore Zappalà; ringraziamo l’autore e l’editore per la gentile concessione.
Come cambia il lavoro
Disporre delle attrezzature più adeguate al contesto dello smart working per poter operare con efficacia è un importante prerequisito per ogni soggetto che si trovi anche per poche ore alla settimana a lavorare con la nuova modalità di lavoro ‘agile’.
Ma questo è solo un aspetto della problematica, perché altrettanto importante, se non addirittura di più, è il fatto che il lavoratore deve pensare e programmare in anticipo il lavoro che dovrà svolgere dal luogo remoto che avrà scelto e dovrà inoltre essere consapevole di quali informazioni potrebbe aver bisogno e come, o dove, eventualmente poterle reperire; visto che nella sede remota deve contare soprattutto su se stesso per svolgere adeguatamente il lavoro richiesto.
L’eventuale malfunzionamento di un’attrezzatura, oltre a sottolineare la lontananza dell’ufficio tecnico aziendale, rafforza la sensazione di isolamento dai colleghi e costituisce una fonte di incertezza, che richiede di programmare in anticipo possibili strategie per la risoluzione dei problemi che dovessero manifestarsi.
Per quanto riguarda invece l’intensità, o la quantità, di lavoro da svolgere da luogo remoto, gli studi segnalano una possibile relazione non lineare tra lavoro svolto a distanza e, ad esempio, la soddisfazione nel lavoro.
Golden e Veiga, in un articolo del 2005(1), hanno rilevato che un campione di lavoratori di una grande impresa ad alta tecnologia svolgeva in media undici ore di lavoro settimanali a distanza, e che sebbene la soddisfazione crescesse al crescere del telelavoro, a un certo livello, oltre le 15 ore settimanali, la soddisfazione non aumentava più, anzi tendeva a diminuire.
Inoltre la soddisfazione era più elevata se il lavoro da svolgere era meno interconnesso con altri colleghi e permetteva ampi margini di discrezionalità.
Un altro studio di Golden del 2006(2) ha evidenziato che una maggiore intensità di telelavoro è associata a una migliore relazione con il superiore gerarchico, con cui bisogna negoziare i compiti da svolgere e monitorare più da vicino quantità e qualità del lavoro svolto, ma a una ridotta qualità delle relazioni con i colleghi. Questi studi segnalano che il lavoro a distanza rende il lavoratore più soddisfatto del suo lavoro quando la quantità di smart working non è molto elevata; oltre una certa soglia, la soddisfazione non aumenta e lo scambio di informazioni tramite la tecnologia non riesce a compensare la mancanza di interazioni faccia a faccia con i colleghi e la sensazione di isolamento sociale.
Per quanto riguarda le esperienze italiane, la raccolta di articoli sullo smart working realizzata da Il Sole 24 ore, ad esempio, segnala (nella versione elettronica del 3 Agosto 2016) che Barilla ha proposto lo smart working a tutto il personale amministrativo per un massimo di quattro giornate al mese [e successivamente estese], mentre Intensa San Paolo per non più di otto giornate al mese(3). La ricerca e le imprese possono quindi confrontarsi per comprendere quale sia l’ammontare di smart working che consente un buon livello di soddisfazione.
Tuttavia, a tal fine, occorre considerare che anche altri fattori, come, ad esempio, il tipo di compito e le differenti caratteristiche dei lavoratori, possono avere un effetto sulla soddisfazione per lo smart working.
Tra i fattori personali che possono, infatti, influenzare la quantità e la qualità del lavoro svolto a distanza, vi è la capacità di strutturare in modo dettagliato il proprio lavoro, ad esempio creando un ambiente che minimizzi le distrazioni, pianificando le attività della giornata o fissando gli obiettivi da raggiungere nelle giornate di smart working. Anche la tendenza a procrastinare è una caratteristica individuale che può rendere più o meno efficace lo smart working.
Non si può cioè assumere che, in assenza degli stimoli e del controllo offerti dall’ambiente di lavoro, tutti i lavoratori siano ugualmente abili, o produttivi, nel lavorare a distanza. Le imprese che pensano di coinvolgere i lavoratori in programmi di smart working dovrebbero quindi considerare non solo le tecnologie abilitanti ma anche la formazione necessaria per ‘abilitare’ le persone. Può infatti essere necessario sottolineare l’importanza di abilità personali come, ad esempio, quelle connesse alla pianificazione, e fornire indicazioni affinché il lavoratore apprenda a organizzare e gestire al meglio un contesto di lavoro che può essere più incerto e variabile di quello cui è abituato nella sede principale.
Conciliazione dei tempi di vita, stress e smart working
La legge italiana (n. 81 del 2017) prospetta, tra l’altro, l’aumento del benessere del lavoratore ‘agile’, come conseguenza della conciliazione dei tempi di vita.
Allen, Golden e Shockley nel 2015(4) hanno passato in rassegna vari studi, e concluso che il lavoro a distanza sembra avere un effetto limitato sulla riduzione del conflitto lavoro-famiglia. Tale effetto limitato sembra sia dovuto al fatto che le responsabilità familiari di un lavoratore agile, come svolgere lavori di riparazione, rispettare appuntamenti quotidiani, o prendersi cura di qualche familiare malato, possano aumentare in conseguenza del fatto che la persona implicata, per lavorare, “resta a casa tutto il giorno”. La conseguenza quindi è che lo smart working possa ridurre il conflitto tra lavoro e famiglia, ma aumentare quello tra famiglia e lavoro.
Il rischio di un’interferenza dei compiti familiari sul lavoro è maggiore per le donne, proprio per le aspettative e la divisione stereotipica dei compiti di genere all’interno delle famiglie. È quindi importante che chi ha un contratto di smart working stabilisca chiari confini e corregga le aspettative di familiari e amici.
La meta-analisi di Gajendran e Harrison nel 2007(5) evidenzia, infatti, che occorre del tempo per adattarsi allo smart working: il conflitto lavoro-famiglia appare minore in chi lavora a distanza da più di un anno rispetto a chi utilizza tale modalità di lavoro da meno tempo.
Sembra inoltre che il lavoro a distanza sia associato anche a una limitata, ma significativa, riduzione dello stress da lavoro e che questo possa dipendere dall’aumentato controllo (ad esempio, sui tempi o sui modi di svolgere il lavoro) offerto dallo smart working (Allen e altri, 2015) e che, anche in questo caso, tale riduzione della percezione di stress sia maggiore in chi lavora a distanza da più di un anno (Gajendran e Harrison, 2007).
Tuttavia il crescente e pervasivo uso delle tecnologie presenta anche delle sfide. Essere sempre connessi alla rete internet permette di ricevere messaggi elettronici in tutti i momenti della giornata, cui è difficile non rispondere, pena la sensazione di essere in ritardo nel flusso informativo del lavoro. I messaggi elettronici sono diventati il simbolo culturale di un legame con il lavoro che, per quanto smart, non si interrompe mai e che invade anche i momenti di non lavoro.
Una recente indagine su quaranta lavoratori che usavano lo smartphone alla sera e quaranta che non lo usavano ha mostrato che questo utilizzo disturba il processo di recupero delle energie, soprattutto quando l’interferenza del lavoro nelle attività di casa è già di per sé elevata. Chi usava lo smarthphone alla sera aveva difficoltà a staccarsi dal lavoro e sperimentava minor senso di autonomia, di controllo e di rilassamento(6).
Il fenomeno non è ancora ben quantificato, tuttavia è già molto avvertito, se alcune imprese stanno correndo ai ripari garantendo ai propri dipendenti almeno una sera alla settimana in cui non rispondere ai messaggi, come in Boston Consulting, o vietano di esaminare la posta elettronica nei fine settimana, come nella società di consulenza Advisory Board(7). Anche la legge di riforma del lavoro francese, del 2016, vieta alle imprese con 50 o più dipendenti di inviare messaggi elettronici ai dipendenti dopo l’orario d’ufficio(8). La Legge n. 81/2017 sembra seguire questa direzione, pur lasciando ampi margini di discrezionalità, in quanto afferma che “la prestazione lavorativa viene eseguita […] entro i soli limiti di durata massima dell’orario giornaliero e settimanale”.
Considerazioni finali
Le opportunità e i vantaggi offerti dalle nuove tecnologie sono numerosi e inarrestabili. Tuttavia, lo smart working è un modo di organizzare il lavoro che è nuovo sia per le imprese sia per i lavoratori. Imprese e lavoratori devono quindi imparare a utilizzare e gestire al meglio i vantaggi che questo offre, riducendone i rischi. L’apprendimento è, infatti, un processo graduale che avviene per prove ed errori, basato anche sulle esperienze di successo e sulle evidenze che la ricerca offre. Le implementazioni di smart working avviate dalle imprese, e gli adattamenti e correzioni cui queste saranno soggette, permetteranno, in tempi più o meno brevi, di arrivare a definire alcuni possibili assetti che consentono allo smart working di essere efficace, tenendo conto, ad esempio, dei lavoratori per i quali questa modalità può essere più vantaggiosa, dei compiti e delle mansioni più adeguati a procedure di smart working, delle postazioni in cui questo è svolto o del tempo che è bene assegnare. Si tratta cioè di capire la migliore combinazione di fattori che permette al lavoratore di svolgere i propri compiti in modo soddisfacente ed efficace. Non si deve infatti dimenticare che si sta comunque parlando di lavoro, anche se smart. Le aziende cominceranno (e continueranno) a investire in questa modalità di esecuzione, e a renderla disponibile ai lavoratori, solo se le prestazioni saranno comparabili almeno a quelle ottenute mantenendo il lavoratore in sede. Da parte loro, i lavoratori dovranno dar prova di autonomia e responsabilità nel gestire obiettivi, compiti e scadenze sulla base di una regolazione che sarà sempre meno eterodiretta, dal capo o dai colleghi, e sempre più autodiretta, dal lavoratore stesso. La legge ha reso possibile implementare esperienze di smart working in numerosi e differenti contesti. Ci auguriamo che tali sperimentazioni siano accompagnate da processi di ricerca che permettano di comprendere meglio i fattori che possono ostacolare e quelli che invece rendono più efficace lo smart working.
Salvatore Zappalà, autore del testo che riportiamo in questo articolo, è Professore Associato dell’Università di Bologna, dove insegna Cambiamento e sviluppo organizzativo. Collabora con aziende ed enti pubblici sui temi dello smart working, qualità della vita lavorativa, collaborazione interorganizzativa e innovazione introdotta dal basso. È stato board member della Associazione Europea di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni (2009-15).