Tutti i difetti di una netta separazione tra vita e lavoro

Il ‘worklife balance’ nel tecnologico mondo di Severance, serie Apple Tv diretta da Ben Stiller.

“Lascia a casa i tuoi problemi personali”. In ufficio si è efficienti, si dà il massimo, si lavora, abbandonando per otto o più ore al giorno le preoccupazioni extra-professionali. Viceversa, in un modo ideale, il tempo dedicato a se stessi, alla famiglia o agli amici non dovrebbe essere appesantito dai fardelli lavorativi che molto spesso si trasformano in scomodi compagni di vita, sempre presenti. Insomma, ogni adulto è un’equilibrista che trova la sua stabilità bilanciando la sfera personale con quella lavorativa.

Raggiungere questo obiettivo sembra più facile a dirsi che a farsi, considerando anche una serie di fattori emotivi e sociali che complicano ulteriormente questa separazione, come la cultura della reperibilità 24/24h. Ma se una netta separazione tra lavoro e vita sociale fosse mentalmente possibile?

Questo è il mondo descritto da Dan Erickson in Severance, tradotto in italiano con Scissione, la serie Apple tv, rilasciata anche su Disney+ tra febbraio e aprile. Composta da nove puntate, l’opera è un thriller psicologico sci-fi che segue la vita di Mark Scout, interpretato egregiamente da Adam Scott. Incapace di reggere la tragica ed inaspettata morte della moglie, il vedovo decide di cambiare carriera, lasciando l’insegnamento per lavorare nella divisione MDR (MacroData Refinement) della Lumon, una potente e prestigiosa grande azienda con diramazioni in innumerevoli settori.

Una separazione netta… Un po’ troppo

L’azienda è al centro di non poche polemiche poiché offre una soluzione definitiva ed estrema al dilemma del ‘worklife balance’. Infatti, i dipendenti di uno speciale e dipartimento top-secret, per essere assunti devono sottoporsi alla ‘scissione’, una procedura medica che prevede l’installazione nel loro cervello di un chip capace di regolare la memoria di chi lo possiede. In questo modo, la coscienza del lavoratore viene mutilata: nei perimetri dell’ufficio il dipendente non avrà alcuno ricordo della sua vita personale, mentre fuori dall’edificio il soggetto non avrà nessuna coscienza del suo contesto lavorativo.

Questa netta separazione non porta a un bilanciamento ma a un annichilimento della personalità, alla creazione di due entità che vivono interamente solo una delle due dimensioni, senza mai esperire l’altra. C’è ‘l’outie’, ovvero il Mark esterno, che conduce la sua vita senza passione, tra una visita e l’altra dalla sorella Devon (Jen Tullock) incinta del life coach Ricken (Michael Chernus). E poi c’è ‘l’innie’, nome usato per definire la coscienza lavorativa della scissione, ovvero il Mark lavoratore che finisce e inizia la sua giornata dentro a un ascensore. Ha gli occhi rossi, ma non ha consapevolezza del lutto che lo lacera. È produttivo e attento e, tutto sommato, contento di lavorare alla Lumon insieme ai suoi colleghi, a osservare dei numeri al computer e cancellare quelli che trasmettono emozioni negative. Ma tutto è destinato a cambiare a seguito delle dimissioni di un collega e l’assunzione della ribelle Helly (Britt Lower), incapace di adattarsi alla sua esistenza da ‘innie’ e alla sorveglianza continua dei suoi superiori: Mrs. Cobel (Patricia Arquette) e Milchick (Tramell Tillman).

Cosa si nasconde dietro ai numeri che Mark cestina? La scissione è uno strumento di benessere, o il modo migliore per sfruttare la forza lavoro e deumanizzarla? Queste sono solo alcune delle domande che Severance sottopone ai suoi spettatori. Come Helly, presentata il suo primo giorno lavorativo, veniamo catapultati senza alcuna informazione nel mondo della Lumon, che viene presentato come distante e futuristico da una parte, ma anche preoccupantemente familiare e attuale dall’altra. Ad accentuare questa sensazione ci pensano le scenografie, curate da Jeremy Hindle. Il mondo esterno è principalmente buio e caotico, dominato dai colori caldi solo quando la sorella di Mark è presente. In contrapposizione, quello interno lavorativo si perde in un labirinto di corridoi immacolatamente bianchi, in cubicoli che intrappolano i dipendenti in una stasi senza fine.

Le prime puntate di Severance scorrono lentamente. La sceneggiatura si prende il suo giusto tempo, dando spazio prima alla costruzione e alla caratterizzazione dei personaggi per poi volgere il suo sguardo verso l’aspetto più thriller della storia. La serie deve molto a Black Mirror, Ai Confini della Terra, al cinema hitchcockiano, ai lavori di Charlie Kaufman, di Franz Kafka, e a 1984. Nonostante i rimandi a queste opere siano evidenti, Severance dimostra la sua originalità: è figlio dei prodotti che l’hanno preceduto, ma sta in piedi sulle sue gambe. Ciò si riflette nelle scelte di regia, in mano a Ben Stiller e Aoife McArdle. Inquadrature inquietantemente simmetriche e composizioni troppo rigidamente bilanciate accrescono una sensazione di soffocamento.

Alla ricerca di un’identità

“Sai, mia madre era atea. Era solita dire che riguardo all’inferno c’è una notizia positiva e una negativa.” ricorda Mrs. Cobel, aggiungendo “quella positiva è che l’inferno è solo il prodotto di una morbida immaginazione umana. Quella negativa è che qualunque cosa gli umani possono immaginare, di solito sono in grado di crearla.” La Lumon, con il suo piano scisso, sembra aver creato la sua personale interpretazione di un girone infernale senza uscita. Se una dimensione, quella personale, sembra poter esistere senza l’altra, quella lavorativa non può che farsi domande sulla sua vita al di fuori delle scintillanti, ma oppressive mura della società. Anche i lavoratori meno curiosi del loro passato manifestano un innato bisogno di costruire una propria identità, di sentirsi parte di qualcosa di più seguendo alla lettera gli insegnamenti dal carattere quasi biblico della società. Celebrati come degli dei, i CEO che l’hanno guidata sono adorati come sagge e imperscrutabili figure. I loro insegnamenti? Dottrine da seguire ciecamente.

In un certo senso, Severance assume toni anche politici. “Parla di come i lavori rivendichino il loro potere, che è ovviamente una brutale, costante battaglia umana” ha dichiarato Erickson in un’intervista a Inverse. “In quanto esseri umani, ci sono delle cose che impariamo come l’empatia e l’autostima e penso che spesso siamo scoraggiati a portarli con noi nel luogo di lavoro, a nostro danno. Meno portiamo di noi stessi a lavoro, e più facilmente siamo sfruttati o coinvolti in pratiche immorali.”

In un periodo in cui il bilanciamento della vita e del lavoro è sempre più cruciale nelle scelte dei lavoratori, la serie appare più attuale che mai. Una delle soluzioni a questo problema era stata vista nello smart working. La pandemia ha incrementato questa pratica che ha continuato a essere molto utilizzata anche dopo la riapertura delle attività post-lockdown. Se per alcune persone il lavoro agile si presenta come un efficace modo flessibile per gestire l’organizzazione lavorativa e personale, per altri ha significato un’ulteriore interferenza della vita lavorativa, inasprendo criticità come il diritto alla disconnessione. Non a caso già nel 2018 l’Harvard Business Review aveva messo in guardia sui possibili rischi di burnout tra i lavori in remoto.

Worklife balance o worklife integration?

Al centro di alcuni dibattiti vi è anche il termine ‘worklife balance’ perché la contrapposizione di queste due parole farebbe quasi supporre che il lavoro non faccia parte della vita. Severance, in maniera estrema ed indiretta, dimostra come sfera professionale e sfera personale costituiscano dimensioni integrali dell’identità di una persona. In seguito a queste riflessioni, ha cominciato a fare capolino un altro modo di gestire queste due dimensioni: la ‘worklife integration’. Se da una parte un concetto punta al separare i due ambiti, l’altro li avvicina. Non si tratta di definire il tempo del lavoro e il tempo della vita personale, ma di focalizzarsi su quale sia il miglior tempo per svolgere queste attività. Vi è meno compartimentazione. “L’integrazione vita lavoro crea una mentalità che permette agli individui di guardare al quadro generale e alle interazione sinergetiche di tutti i componenti” ha spiegato Michelle Marquez della UC Berkeley Haas School of Business. “Non c’è un senso di competizione tra elementi di vita e di lavoro che vadano distribuiti in maniera omogenea”.

Giudizio sicuramente positivo

Adam Scott guida un ottimo cast, tra il quale spiccano in particolare la performance di John Turturro e quella di Christopher Walken. Originale, provocatoria e visivamente accattivante, la serie dimostra la sua attualità e, nonostante ruoti intorno a una futuristica innovazione tecnologica, si regge sull’umanità dei suoi personaggi. Superata la lentezza iniziale, Severance si impone come una delle serie più interessanti e qualitativamente degne di nota del momento.


Serena B. Ritondale

Serena B. Ritondale nasce a Roma nel 1991. Comincia la sua carriera da redattrice scrivendo per alcune testate online di letteratura e cinema, tra cui Vertigo24 dove ricopre il ruolo di Vice Caporedattore. Si laurea in Sociologia all’Università Sapienza di Roma e successivamente si diploma all’Istituto Rossellini come Videomaker per cinema, tv e web....

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