Robot e genitorialità: tra I Am Mother e studi di settore
Quali sono le conseguenze di una prolungata esposizione da parte dei bambini ai robot? Cinema e ricercatori si interrogano.
La giornata tipo di Figlia è all’insegna dell’ordinarietà. Si sveglia, studia, si esercita, guarda la televisione e si prepara per andare a dormire. Figlia ha una spiccata intelligenza e un’approfondita conoscenza del mondo, ma questa è stata acquisita solo attraverso le lezioni di Madre, un androide che si è preso cura di lei sin dalla nascita, selezionandola tra i 63.000 embrioni presenti nella struttura nella quale vive, costruita per il ripopolamento della Terra. Il mondo esterno è inaccessibile a causa di agenti chimici che, in modo imprecisato, avrebbero portato all’estinzione della specie umana. A sconvolgere la monotona vita di Figlia, interpretata da Clara Rugaard (nella foto in alto), è l’inaspettato arrivo di una donna sanguinante che, con la sua stessa esistenza, metterà in discussione tutte le certezze della giovane. Con ‘I Am Mother’, l’esordiente australiano Grant Sputore mette in scena una claustrofobica piece teatrale il cui palcoscenico è rappresentato dall’impeccabile scenografia di Hugh Bateup, collaboratore delle sorelle Wachowski (Matrix, Cloud Atlas), che immerge i personaggi in un ambiente solitario e al tempo stesso evocativo. Sono le performance del robot, realizzato dalla Weta Workshop (Il Signore degli Anelli, Blade Runner 2049) e doppiato in originale da Rose Byrne, e quella di Hilary Swank nei panni di Donna, a dare forza alla pellicola. Non male neanche l’interpretazione di Rugaard, cuore del film, che unisce in sé elementi umani e comportamenti più da robot, a dimostrare l’influenza che la ‘figura materna’ androide ha avuto su di lei.
Come il cinema racconta il rapporto uomo-macchina
Chappie, Ex Machina, 10 Cloverfield Lane e Black Mirror sono solo alcune delle ispirazioni cinematografiche dell’opera che prende spunto anche dalla realtà: non a caso Madre è basata sull’umanoide Atlas di Boston Dynamics. L’ambizioso film, seppur low budget, cerca di far combaciare due anime: da una parte quella thriller/action, dall’altra quella più introspettiva. Nel primo caso ci immedesimiamo in Figlia, interrogandoci su quale delle due ‘donne’ riporre la nostra fiducia. La ricerca della verità si trasforma così in una presa di coscienza della realtà storica, e la curiosità verso il mondo esterno passa attraverso la scoperta dei misteri interni al bunker. Nel secondo caso, a catturare la nostra attenzione è la relazione Madre-Figlia che si instaura tra l’umana e l’androide, relazione che porta con sé una serie di interrogativi etici e morali, che ci spingono a riflettere su cosa sia l’amore genitoriale. Può una macchina essere in grado di comportarsi con successo come un genitore? Come questo influirebbe sullo sviluppo del bambino? Che tipo di motivazione e aspettative guiderebbero le azioni del robot/genitore? E infine, che parametri testimoniano il successo o l’insuccesso di un genitore? Sono legittimi dei sentimenti anche se sono stati creati artificialmente? A modo suo, ognuno dei tre personaggi principali risponde almeno parzialmente a queste domande, ma la risposta finale viene lasciata allo spettatore. Purtroppo la pellicola, pur mantenendo un buon ritmo, non riesce a convincere pienamente né come thriller, né come dramma. I Am Mother perde di vista i suoi tre personaggi quando invece di addentrarsi nella loro psicologia, punta sui continui stravolgimenti della trama che dominano la seconda parte del film.
Interrogativi etici e filosofici
La sceneggiatura di Michael Lloyd Green ruota intorno a tematiche già viste nel panorama sci-fi come lo sviluppo da parte di macchine senzienti di emozioni umane quali il rifiuto, la gelosia e la rabbia, inserendole in un contesto genitoriale. Riflette anche sul controverso rapporto che abbiamo con la tecnologia. Siamo alla ricerca della perfezione e di un arrestabile sviluppo. Sogniamo robot che siano sempre più tecnologicamente avanzati, che ci facilitino la vita di tutti i giorni, che sappiano prendere decisioni anche molto difficili, ma allo stesso tempo abbiamo paura di dove li conduca un’eccessiva razionalizzazione. In questo quadro, sono famosi gli studi del filosofo svedese Nick Bostrom che da anni si occupa del principio antropico e del rischio esistenziale sulla possibilità della sopravvivenza dell’umanità a lungo termine. Legata al tema dello sviluppo tecnologico, la questione è correlata a un’eventuale esplosione di intelligenza artificiale che, liberando la coscienza delle macchine, ridurrebbe o eliminerebbe del tutto il controllo dei creatori umani su di loro. Per Bostrom, la minaccia robot sarebbe dovuta alla persecuzione ostinata di uno scopo assegnato dai loro programmatori. In un saggio del 2003, l’autore presenta il paradosso della ‘massimizzazione di graffette’. Basato sul concetto della convergenza strumentale, Bostrom ipotizza che un gruppo di informatici programmi delle intelligenze artificiali per costruire graffette usando determinate materie prime. Nello scenario immaginato dal filosofo, una superintelligenza sarebbe votata all’auto-preservazione, alla necessità intrinseca di portare a termine e massimizzare il suo compito, liberandosi così dal controllo umano, conscia che, una volta terminate le materie a disposizione, e quindi la sua raison d’être, i ricercatori l’avrebbe disattivata. Non soddisfatta, questa super-IA continuerebbe a trasformare ogni risorsa del pianeta in materie prime necessarie alla creazione e all’assemblaggio di graffette. Il catastrofico paradosso di Bostrom nella sua eccessività è stato usato più che in campo scientifico – sebbene abbia contribuito alla circolazione di un dibattito circa i rischi delle super intelligenze – in quello fantascientifico e lo ritroviamo anche in I Am Mother, nella caratterizzazione di Madre.
Lo sviluppo di una specifica letteratura
La bibliografia relativa allo sviluppo emotivo e cognitivo dei bambini cresciuti al fianco di robot sta cominciando a prendere piede. A contribuire a questa proliferazione è stato anche il lancio sul mercato di iPal, il robot della Avatarmind descritto dalla società produttrice come un “umanoide robotico completamente funzionale con un comportamento amichevole e divertente.” Oltre che come assistente ai clienti nei negozi, iPal è molto utilizzato come compagnia per persone anziane, sostegno per gli insegnanti e come baby sitter. “iPal non è una fredda macchina senza sentimenti, anzi è un ottimo compagno per i tuoi figli” dichiara Avatarmind, sottolineando l’avanguardia del suo sistema di gestione dei sentimenti che sarebbe in grado in interpretare l’umore del bambino per tirarlo su di morale in caso di tristezza o condividerne la gioia se felice. Chi si proclama a favore di un maggior uso dei robot nella cura dei giovani e degli anziani ne evidenzia i pregi legati alla sicurezza, all’economicità, alla capacità di tenere i bambini perennemente interessati e di stimolarli a conoscere in modo interattivo.
“Sebbene il pensiero simulato possa essere considerato un pensiero, le emozioni simulate non sono mai vere emozioni così come l’amore simulato non è vero amore” ha affermato la studiosa Turkle che, in ‘Insieme, ma soli. Perché ci aspettiamo sempre di più dalla tecnologia e sempre meglio dagli altri’, analizza le conseguenze di una massiccia e prolungata esposizione da parte dei bambini ai robot. I rischi principali sarebbero legati allo sviluppo delle capacità comunicative, ma soprattutto a quelle emotive. Sostituendo con la tecnologia le relazioni sociali, soprattutto quelle primarie, si va ad incidere non solo sull’autostima del bambino, ma anche sulla sua abilità di rapportarsi in maniera dialettica con il prossimo, sfruttando un interlocutore che, pur programmato per ascoltarci e capirci, non ci richiede reciprocità. Dà, senza aver bisogno di ricevere, senza insegnare come rapportarsi in maniera empatica con il prossimo. Secondo Mariacarla Memeo, ricercatrice dell’Istituto Italiano di Tecnologia, l’interazione con i robot, affiancati da un terapista qualificato, potrebbero invece aiutare alcuni bambini a migliorare le loro interazioni con gli adulti. “I bambini con autismo, hanno una naturale propensione ad interagire con i robot. Per questo motivo iCub è stato scelto […] per sperimentare l’uso dei robot nella riabilitazione del disturbo dello spettro autistico”, ha dichiarato a GarrNews, aggiungendo “non siamo i primi al mondo a utilizzare la robotica in questo senso, dato che, al contrario degli esseri umani, il comportamento e le reazioni dei robot si possono programmare, controllare e modulare, e per i bambini con autismo questa prevedibilità rappresenta un grande valore aggiunto”. La robotica è ancora lontana dal poter dar vita a intelligenze artificiali come quella di I Am Mother, ma non è mai troppo presto per porsi interrogativi etici.