Le cose da sistemare per rendere di qualità l’esperienza del ‘lavoro agile’

Con la fine della fase di emergenza la nuova modalità diverrà definitiva in molte realtà. Ma il passaggio non può essere automatico, bisogna definire regole e best practice ed evitare i rischi ‘nascosti’ nelle parole simili.

Ma come sta e dove va lo smart working? Da un lato, in questi mesi, contro questo concetto non sono mancati gli attacchi antistorici da parte di coloro che nonostante gli effetti positivi sulla produttività generati dal nuovo modo di lavorare negli ultimi due anni, sono convinti che è molto meglio vedere e controllare i propri dipendenti tenendoli inchiodati tutti i giorni della settimana lavorativa alle scrivanie dei loro vecchi uffici per otto e più ore – attacchi nei quali si sono distinti da tempo il ministro Renato Brunetta e più recentemente Elon Musk di Tesla.

Dall’altro, invece, le due parole smart working iniziano a essere sostituite con altri termini, sicuramente meno eleganti come lavoro ibrido o workation (ossia la fusione delle due parole inglesi work e vacation), che ci vengono proposte come se fossero la “stessa cosa”… E invece come sempre le cose simili non sono uguali e il diavolo si nasconde nei dettagli.

Se è vero che sono stati in pochi in questi due anni a praticare lo smart working ‘puro’, ossia quello focalizzato su obiettivi da raggiungere e non sugli orari da rispettare, e quanto è stato generalmente praticato dalle 9.00 alle 18.00 di ogni giorno è più associabile al concetto di remote working, è però anche vero che ognuno ha trovato il modo di esercitare il suo ‘diritto implicito alla sconnessione’ quando ha voluto/potuto… Certo non sono mancati quegli abusi che hanno portato, per esempio, le persone che lavorano per società multinazionali, molte dell’IT, a fare videocall a tutte le ore del giorno e della notte, o i capi che mandano i messaggi su WhatsApp alle 7.00 del mattino e pretendono risposte immediate… Tutto ciò è stato possibile perché in una fase di emergenza non si è pensato di mettere i paletti, anche giuridici, che limitassero questi casi, ma ora che stiamo uscendo dai due anni di Covid che hanno imposto questa nuova modalità di lavoro le cose devono andare diversamente.

Qualche importante domanda sul nostro futuro

Siamo di fronte a un passaggio storico, delicato e piuttosto critico. La pandemia ancora attiva si sta lentamente spegnendo, e a meno che in inverno con i primi freddi non ci siano una nuova recrudescenza, e quindi potremmo anche pensare di aver finalmente archiviato il Covid.

Non a caso, come sappiamo, il prossimo 31 agosto finirà la fase di emergenza in cui sono state rese facilmente fruibili le regole sul lavoro agile, come la legge italiana definisce appunto lo smart working… E quindi cosa dovremmo aspettarci dal 1 settembre in poi? Andremo avanti con la versione light dello smart working, ossia il remote working, dove chi riesce si stacca dal lavoro quando vuole o può conciliando così al meglio delle sue possibilità la vita privata con quella lavorativa? In questo caso però come riusciremo a superare tutti gli abusi e le cattive pratiche che si sono viste in questi due anni? Oppure adotteremo quello che ci vogliono convincere sia la stessa cosa dello smart working, ossia il lavoro ibrido o il modello workation, dove però esiste un più forte rischio di intromissione del lavoro negli spazi della vita privata? Non è il caso di definire in tutte queste situazioni delle regole esplicite per evitare gli abusi?

La nostra convinzione è che bisogna mirare a uno smart working di qualità, dove al concetto di lavorare per obiettivi sia comunque affiancata una serie di tutele sugli spazi di vita privati che vanno comunque salvaguardati; non può bastare un generico “ognuno poi si organizza come meglio crede”, questo non basta per evitare abusi e tecnostress in una società dove tutto diventa digitale e dove i vantaggi competitivi si erodono velocemente e la concorrenza alla fine si rischia di farla solo sul prezzo di tutto quello che nel tempo verrà trasformato in servizio. Il tutto nella consapevolezza che l’aumento della digitalizzazione impone prima o poi, come diciamo da tempo, un ripensamento globale sul modello di lavoro basato sui 5 giorni alla settimana ereditato dal ‘900 anche per evitare impatti sociali pesanti causati dalle innovazioni tecnologiche nelle nostre vite e nelle nostre comunità.

Messo dunque in evidenza che il passaggio allo smart working non deve essere sottovalutato sotto ogni aspetto, in questo articolo, come detto all’inizio, vogliamo fare il punto su quanto questo modello è entrato o stia entrando nelle aziende italiane, e come bisogna approcciarlo per gestirlo al meglio.

Smart working: una scelta irreversibile

Oltre 8 aziende dell’area metropolitana milanese su 10 nel primo trimestre 2022 hanno avuto almeno un dipendente in smart working, per un numero di dipendenti coinvolti pari al 22% del totale. La percentuale risulta più elevata tra le imprese dei servizi, 91%, a fronte del 79% rilevato nell’industria, e nel comune di Milano, 90%, rispetto al 78% rilevato nell’hinterland. Sono questi i principali risultati della rilevazione del centro studi di Assolombarda, i cui risultati sono stati presentati a fine maggio 2022, che ha coinvolto più di 250 imprese milanesi del manifatturiero e dei servizi avanzati.

“Lo smart working negli ultimi due anni è un modello organizzativo che ha visto una forte accelerazione ed è oggi entrato a far parte della cultura aziendale diffusa – ha dichiarato Diego Andreis, vicepresidente di Assolombarda con delega a Politiche del lavoro, Sicurezza e Welfare. Nel 2021 Confindustria, insieme alle organizzazioni sindacali, ha sottoscritto il Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile, con lo scopo di fissare le linee di indirizzo per la contrattazione collettiva nazionale, aziendale e/o territoriale. L’intento, quindi, è stato quello di promuovere lo smart working offrendo alle imprese un quadro di riferimento a riprova del fatto che il bilanciamento vita-lavoro è da sempre uno dei valori al centro delle nostre pratiche quotidiane.

Quando finirà il periodo di emergenza che ha condizionato il ricorso diffuso allo smart working, pertanto, non ci troveremo impreparati. Ne è prova l’analisi effettuata da Assolombarda su un campione di accordi sindacali sottoscritti da imprese associate aventi oggetto lo smart working che evidenzia come, già in epoca pre-pandemica, a livello aziendale erano già state concordate regole di gestione efficace dello strumento, successivamente riprese dal Protocollo nazionale. L’autonomia contrattuale delle Parti sociali, dunque, continua a costituire un valido framework su cui poter incardinare il futuro del lavoro, che si giocherà su flessibilità, skill, formazione continua, forme contrattuali e tutele”.

A due anni dall’inizio della pandemia la diffusione del lavoro da remoto in forma strutturale o per esigenze legate all’emergenza è infatti molto superiore al passato. Basti pensare che nel 2019 solo 3 imprese su 10 ricorrevano al lavoro agile e la percentuale di lavoratori in smart working era del 15%. Mentre ora, il 63% delle imprese milanesi che hanno risposto al sondaggio, prevede di attivare lo smart working in maniera strutturale nel futuro, una percentuale in linea con il 65% di aziende che, nell’autunno 2020, prevedeva l’utilizzo del lavoro da remoto anche nel post-pandemia.

Tra le imprese di Assolombarda nell’area di Milano, Monza Brianza, Lodi e Pavia che hanno introdotto lo smart working in modo strutturale la quota di smart worker raggiunge il 27%, con punte del 43% nei servizi rispetto al 17% dell’industria: una percentuale di lavoratori superiore non solo al 15% pre-Covid, ma anche al 22% dei primi mesi del 2022, che in parte include ancora la modalità di emergenza.

Nelle aziende che hanno introdotto strutturalmente il lavoro da remoto, la compatibilità delle mansioni è quasi sempre la condizione di accesso prioritaria allo smart working (96%), seguita dall’adeguatezza della connessione (62% delle aziende). Meno rilevante è l’appartenenza ad aree aziendali predeterminate (42%), segno di una crescente consapevolezza che la possibilità di lavoro da remoto è legata al lavoro specifico più che alla collocazione funzionale. Infine, 1 azienda su 4 vincola la possibilità di smart working alla frequenza di un corso di formazione mirato.

Formazione soprattutto sul fronte sicurezza informatica

L’attenzione alla formazione, in particolare a quella dedicata ai temi della sicurezza informatica – al di là di quella obbligatoria – e a quella dedicata ai manager, emerge anche con riferimento agli investimenti necessari: solo il 19% delle aziende non ne prevede in questi ambiti. Tra gli investimenti ‘fisici’, la quasi totalità delle imprese (81%) segnala la necessità di pc portatili, mentre investimenti sullo smartphone aziendale sono circoscritti al 38% delle aziende. Rilevante appare invece l’attenzione alla cyber security: in ben 4 aziende su 10 gli investimenti fisici sono concentrati su strumenti di protezione. Riorganizzazione di spazi e potenziamento di infrastrutture ICT hanno, poi, coinvolto circa il 30% delle aziende.

Produttività e rischi connessi

Le aziende che segnalano la necessità di cambiamenti nella gestione delle risorse connessi allo smart working sono solo il 40%, una quota sorprendentemente contenuta considerando l’impatto che tale organizzazione del lavoro comporta: in 1 azienda ogni 3 è stato introdotto un sistema di valutazione basato sul raggiungimento di obiettivi, ma solo l’1% ha adottato parametri specifici di produttività per chi lavora a distanza.

Infine, è opportuno rimarcare le opportunità ma anche i rischi connessi allo smart working. Avendo concesso una sola possibilità di scelta, quasi la metà delle aziende che ha collaborato all’iniziativa ha guardato alla ricaduta positiva per i propri collaboratori (conciliazione vita-lavoro 31%, fidelizzazione e attrattività aziendale 17%), mentre il fattore economico è quello principale per meno di un quarto delle aziende (orientamento al risultato 13%, miglioramento delle performance 6%, ottimizzazione dei costi per l’utilizzo degli spazi 4%), mentre il rimanente 28% non ha fornito indicazioni. Dal lato del principale rischio, il più citato è l’impatto sull’interazione delle persone, sommando la minor comunicazione (29%) e il minor contributo all’innovazione (15%), mentre il possibile conflitto tra dipendenti eligibili e non raccoglie ormai che un numero esiguo di segnalazioni (4%).

Dopo tutti questi numeri si può trarre la conclusione che con un numero di imprese superiore al 60% intenzionate ad attivare e mantenere lo smart working in modo strutturale, possiamo dire che anche in Italia, seppur la ricerca sia stata realizzata in una zona particolarmente avanzata come la provincia di Milano, lo smart working appare come uno scenario ormai irreversibile. I detrattori di questo modello piuttosto che perseverare in una posizione antistorica, dovrebbero partecipare attivamente al dibattito su come si può arrivare a un vero smart working di qualità che concilii le esigenze delle singole persone, anche con il diritto al distacco e l’annullamento degli abusi, con le giuste aspettative delle imprese in termini di produttività e di qualità delle relazioni ‘dal vivo’.

Perché lavoro ibrido e smart working non sono la stessa cosa

Come spiegato nel libro scritto da David Bevilaqua, in passato manager di primo livello di un’importante azienda multinazionale dell’ICT nella quale ha rivestito anche incarichi internazionali e oggi amministratore delegato di una realtà italiana che si occupa di data science e AI – ‘Ibridomania, dagli eccessi del lavoro ibrido all’importanza del ritmo’, edito da Guerini Next (174 pagine, 22 euro) – pensare che smart working e lavoro ibrido siano l’uno sinonimo dell’altro è profondamente sbagliato. Lo smart working di qualità ha come fine il miglioramento del work life balance, ossia del rapporto tra vita e lavoro, e questo presuppone che ci sia comunque una netta separazione tra queste due componenti, che seppur interconnesse rimangono fondamentalmente separate. Come sappiamo e abbiamo già ricordato in questo articolo, presupposto dello smart working di qualità è poi che non ci siano degli stretti vincoli di orario per svolgere i propri compiti e che quindi il lavoro svolto venga giudicato e remunerato per gli obiettivi raggiunti anziché per la quantità di lavoro svolto.

Il lavoro ibrido, invece, è l’allarme di Bevilacqua, rischia di portarci esattamente nello scenario opposto. Per incapacità, pigrizia, resistenza al nuovo le organizzazioni, i manager, gli imprenditori rischiano di non riuscire ad affrontare il cambiamento che mette al centro gli obiettivi al posto della quantità di lavoro, e senza regole ben definite lavoro ibrido da remoto significherà quindi… Non staccare mai. Fare compromessi con le proprie esigenze di vita, accettare di rispondere alle mail durante il week end, oppure interrompere una cena con i propri cari o i propri amici per fare una videocall, accettare che il proprio capo mandi WhatsApp al di fuori di orari consoni. Un modo di vivere che già oggi è nel quotidiano di molte persone, e dal quale è molto difficile svincolarsi per chi ha ruoli di responsabilità ‘intermedi’, per chi non vuole o non può dire di no ai capi che magari sono internazionali, per chi ha un ‘senso del dovere’ un po’ eccessivo, ma soprattutto per tutti coloro che hanno rapporti di lavoro precari, di collaborazione a partita IVA con un mono cliente, giovani in stage oppure donne che durante il lavoro da remoto a casa in questi anni hanno comunque continuato e farsi carico, per esempio, del lavoro di cura dei figli… Con buona pace della famosa work life balance.

Il libro di Bevilacqua chiama in causa come i principali attori che possono evitare questa pericolosa china proprio i manager e gli imprenditori, è nelle loro mani il compito di riportare il digitale a uno dei suoi obiettivi originari: liberare il tempo delle persone. Bisogna dimenticare che ‘il tempo è denaro’, per convincersi invece che ‘il tempo è valore’.

L’autore mette in luce anche come molti stereotipi che ci derivano da una cultura soprattutto familiare che ci è stata trasmessa da persone che hanno vissuto il lavoro come fatica, o comunque come una cosa che era scontato non dovesse essere necessariamente divertente, faccia ormai a pugni con la realtà di oggi. Il fenomeno del ‘busybragging’, ovvero il continuare a sostenere di essere sempre sommersi dagli impegni di lavoro deve essere eliminato. Perché, se è veramente reale, c’è allora qualcosa che non va e che deve essere sistemato nella propria organizzazione, se è invece solo un modo per vantarsi della propria importanza e delle proprie indiscusse capacità, allora bisogna smettere, e iniziare a pensare in modo diverso, anche perché non solo ci si sta danneggiando senza accorgersene, ma soprattutto si danneggiano gli altri, i colleghi, i familiari, gli amici e tutti i rapporti che abbiamo con loro.

Le persone hanno bisogno di altro ed è un bene che se ne inizi a parlare soprattutto per capire come il digitale può diventare finalmente abilitatore di una vera libertà e non invece un meccanismo che ci rinchiude in nuove gabbie. Negli Stati Uniti in conseguenza alle Grandi Dimissioni (Great Resignation), fenomeno di cui si inizia a discutere anche in Italia, si parla ormai di Yolo Economy, dove l’acronimo inglese sta per: Yuor only life one, ossia ‘Abbiamo una vita sola’! Se le aziende non daranno risposte in questo senso, e lo smart working di qualità è il fattore determinante che in questo passaggio storico può essere giocato da ogni impresa come un’importante fattore abilitante, sarà per loro difficile tra sei mesi, un anno, due… rincorrere i propri dipendenti che si metteranno alla ricerca di un nuovo modo di vivere.

Negli Stati Uniti, questo fenomeno ha registrato nel 2021 mediamente ogni mese 3,98 milioni di dimissioni volontarie (fonte: US Bureau of Statistics), e questo ha coinvolto molto i settori a più alto valore aggiunto, come la finanza e le aziende del digitale…

Attenzione alle aspettative della ‘workation’

Negli Stati Uniti, dove generalmente i giorni di ferie a disposizione delle persone sono 10 all’anno, un numero sempre crescente di lavoratori sta cercando di mischiare il lavoro con il piacere, quindi andare in vacanza e continuare a lavorare da remoto. Un trend nato proprio grazie alla pandemia.

Il fenomeno chiamato workation, come detto fusione tra le due parole work e vacation, è stato indagato da Passport-Photo.Online che ha deciso di fare un sondaggio a più di 1.000 americani sulle loro recenti esperienze di questo tipo, per scoprire quali sfide hanno affrontato, come le loro prestazioni lavorative sono state influenzate e molto altro ancora. Il campione è stato selezionato tra le persone che negli ultimi due anni hanno realizzato almeno un’esperienza di workation.

Questo fenomeno ha coinvolto negli anni 2020-2021 un numero di ‘nomadi digitali’ crescente. Sempre la stessa fonte dichiara che negli USA il numero di persone che viaggiano ed esplorano il mondo continuando a lavorare (questa secondo Passport-Photo.Online è la definizione corretta di nomadi digitali) è aumentato del 50% rispetto al 2019 e oggi ammontano a circa 10,2 milioni di persone.

Venendo ai risultati della ricerca, i nomadi digitali hanno privilegiato periodi di workation: al 36% di 1-2 settimane; al 32% di 3-4 settimane; al 13% di più di un mese; al 10% di più di meno di una settimana e al 9% di due mesi o più.

Come si può vedere, i soggiorni a medio e lungo termine sono le scelte più popolari.

Successivamente i ricercatori hanno chiesto ai nomadi digitali americani dove hanno soggiornato durante la loro più recente esperienza di Workation. Le risposte sono state al 43% da amici o in famiglia; al 31% in hotel; al 18% presso case trovate con Airbnb; il 4% con Couchsurfing (un altro servizio di scambio di ospitalità); il 2% in camper e un altro 2% in ostello.

Infine, è stato chiesto a cosa hanno prestato attenzione i nomadi digitali USA quando hanno scelto il loro alloggio per la Workation (era possibile più di una risposta). Al primo posto, come era prevedibile ma solo al 65%, una connessione internet affidabile; al 63% le tre voci standard di salute e sicurezza, valutazioni e recensioni online e spazio adatto per lavorare; al 52% costo del soggiorno; al 50% flessibilità di cancellazione senza penalità; al 28% vicinanza ad attrazioni turistiche; al 15% presenza di una sala riunioni tranquilla.

A questo punto sono state chieste le motivazioni principali che spingono a un’esperienza di workation (erano possibili risposte multiple). Ecco le risposte raccolte: 67% per ricaricare le batterie dal punto di vista mentale ed emotivo; 62% per evitare di sentirsi bloccati in un posto; 60% per esplorare una nuova destinazione senza dover usare i giorni di ferie; 57% per sfuggire alla routine e godere di un cambio di scenario; 42% per incontrare nuovi amici, contatti di lavoro o l’amore; 18% per prevenire o affrontare un esaurimento nervoso.

Quest’ultimo punto, sul quale ritorneremo anche più avanti rispetto invece alle risposte raccolte in Italia, mette in luce la necessità di prevenire o affrontare il burnout, ossia uno stato di esaurimento fisico o emotivo che deriva dallo stress cronico. Fenomeno che rischia di diventare il ‘male’ del secolo digitale e che negli ultimi anni l’OMS ha riconosciuto ufficialmente come un problema di salute derivante da stress da eccessivo lavoro.

Aspetti positivi, ma anche aspetti negativi

Ma che grado hanno raggiunto le esperienze di workation realizzate in questi anni? Il 57% del campione le giudica positive; il 31% molto positive; il 10% neutre; l’1% negative e meno dell’1% molto negative.

Inoltre, è stato chiesto se per il futuro, a partire dal 2022, i partecipanti al sondaggio stanno pensando di pianificare una nuova esperienza di workation. In questo caso la risposta ‘Sì’ ha raccolto un clamoroso 94%.

Tutto perfetto dunque?

Purtroppo, non è tutto rosa e fiori e tra gli aspetti negativi emersi durante l’esperienza di workation vissuta non si può non rilevare che al secondo posto con ben il 56% del campione ha comunque registrato un impatto negativo proprio sull’equilibrio tra lavoro e vita privata; e al quinto posto con il 18% la solitudine, a dimostrazione che comunque rimane molto difficile farsi nuovi amici o nuovi amori quando si stringono relazioni in archi temporali molto brevi.

Interessanti anche le altre risposte sugli aspetti negativi che bisogna tenere in considerazione prima di lanciarsi in un’avventura di vacanza-lavoro. Il 71% del campione ha registrato un alto costo della vita; il 54% problemi con il visto e/o permesso di lavoro e il 51% implicazioni fiscali penalizzanti.

Ma i benefici comunque non sono mancati. Proseguendo la lettura dell’indagine sul fenomeno workation realizzata da Passport-Photo.Online è emerso che l’86% degli intervistati si è detto d’accordo o fortemente d’accordo che l’esperienza di workation ha aumentato la loro produttività; più dell’81% è diventato più creativo sul lavoro; circa l’84% è ora più soddisfatto del proprio lavoro; quasi il 69% è meno propenso a licenziarsi dopo aver vissuto un’esperienza di workation; e infine, dato molto importante, ben l’83% è d’accordo o fortemente d’accordo che l’esperienza di workation li abbia aiutati ad affrontare il burnout.

Suggerimenti su come impostare regole e best practice

Intorno al dibattito italiano sullo smart working un contributo importante è arrivato in questi mesi da Cefriel, centro di innovazione digitale fondato dal Politecnico di Milano, che ha rilasciato diversi documenti sul tema. Di seguito ne riportiamo uno che coglie la posta in gioco del momento.

Se la pandemia ha accelerato molto l’adozione del lavoro agile che, stando alla definizione contenuta nella legge che la disciplina, sarebbe una “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro (…), senza precisi vincoli di orario o luogo di lavoro”, ora è sempre più urgente capire in che modo lo smart working possa diventare una formula collaudata capace di portare benefici all’interno delle organizzazioni e ai lavoratori anche nel post-emergenza. Ma in questo contesto – si legge nel documento reso pubblico da Cefriel – la strada verso un corretto uso del lavoro agile sembra ancora lunga.

Secondo i dati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, nel periodo di completa remotizzazione, il 28% degli utilizzatori ha sofferto di tecnostress e il 17% di ‘over working’, a dimostrazione del fatto che non si può parlare di smart working senza aver definito un modello organizzativo e delle policy adeguate che lo rendano attuabile e positivo per tutte le parti interessate.

E questo mentre il dibattito pubblico su come ripensare il mondo del lavoro in base alle esigenze personali sta prendendo sempre più piede – basta osservare quanto sta accadendo negli Stati Uniti, con la nascita di movimenti che rimettono al centro la soddisfazione del lavoratore, intesa in senso olistico e non solo legata alle ore ‘di ufficio’ – e la ricerca sta analizzando in che modo il ricorso allo smart working abbia cambiato profondamente i metodi di apprendimento e formazione nel mondo del lavoro.

“La vita in ufficio serve a creare cultura, allineamento e coaching diffuso, ma occorre considerare il fatto che il poter lavorare da remoto garantisce flessibilità e work-life balance. Trovare un equilibrio si può: la chiave del successo è definire progetti di smart working disegnati sulle esigenze delle persone, con focus sul raggiungimento degli obiettivi e bilanciamento tra le diverse necessità personali e aziendali”, ha spiegato Alfonso Fuggetta, CEO e direttore scientifico di Cefriel.

Indicazioni che nascono dall’esperienza

Cefriel ha iniziato a sperimentare la modalità del lavoro agile già a partire dal 2014, consolidando l’esperienza nel 2017 con un gruppo di smart worker, esperienze dirette che gli hanno consentito recentemente di pubblicare il white paper ‘Lavorare bene. Lo smart working come alleato’ a cura di Roberta Letorio, chief human capital & mobility manager della società. Si tratta di una guida pensata per aziende e lavoratori, che fissa le priorità secondo cui pensare al ‘secondo tempo’ del lavoro agile e che contiene delle best practice per lo smart working individuate proprio dalle diverse esperienze consolidate.

Nello studio si segnalano quindi le regole utili per orientare il nuovo corso dello smart working ‘a regime’, che qui riassumiamo brevemente. In primo luogo, sarà necessario ripensare gli spazi aziendali, prevedendo luoghi per interazioni e luoghi di isolamento. Una possibile evoluzione degli spazi in questo senso vedrà la costruzione di isole progettuali, in cui le persone non hanno una scrivania assegnata, ma si riuniscono intorno a un team di progetto. Allo stesso tempo sarà necessario regolare i tempi di lavoro evitando che lo smart working diventi lavoro da remoto senza vincoli di orario. Indicazioni preziose da questo punto di vista sono: evitare le riunioni tra le 13 e le 14.30; evitare di chiedere il coinvolgimento dei colleghi, salvo imprevisti, al di fuori dell’orario lavorativo e nel weekend; nel caso si predispongano delle mail in questi range temporali ritardarne l’invio. Lavoro agile non significa lavoro solitario, per questo una delle priorità individuate da Cefriel riguarda proprio il valore delle relazioni negli ambienti lavorativi che vanno mantenute anche da remoto.

Infine, la nuova modalità richiede un ripensamento sui modelli di leadership poiché lo smart working ha bisogno di una leadership generativa, empatica, attenta allo sviluppo e al benessere delle persone. Un modello al quale si può fare riferimento è senza dubbio quello tracciato nel libro ‘Leadership Situazionale’ di Hersey Blanchard, ispirato a uno stile ‘contingente’ e flessibile, che tenga conto delle differenze fra collaboratori ‘inesperti’ e ‘maturi’ e fra ‘junior’ e ‘senior’ e in cui è il leader ad adattare le sue azioni in base al livello di maturità di chi lo segue.

Sul percorso da compiere, Roberta Letorio di Cefriel in conclusione fa notare che: “Lavorare bene, anche attraverso un approccio corretto allo smart working, significa saper co-costruire modalità di lavoro e interazione fluide, che cambiano insieme, e grazie, alle persone. È certamente impegnativo, sia per le piccole realtà imprenditoriali che per quelle di più grandi dimensioni, ma estremamente produttivo e gratificante”.



Ruggero Vota

Con una solida formazione informatica e dopo un’esperienza triennale in software house, nel 1986 inizia l’attività giornalistica su riviste del settore ICT, mensili e settimanali. Dal 2012 è Caporedattore delle riviste ICT di Soi...

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