Da Io e Caterina a La Fabbrica delle Mogli
A quarant’anni dal film di Sordi, una riflessione su come i robot rischiano di riprodurre le disuguaglianze di genere.
“Chi è Caterina?” “Quella che ha sostituito mia moglie e le cameriere. La casa la governa lei, è quella che voi in Italia chiamereste una donna tuttofare” con queste parole Arturo (Rossano Brazzi) confida all’amico imprenditore Enrico Melotti (interpretato da Alberto Sordi) il segreto della sua rinnovata felicità. Agli occhi dei due maschi, Caterina è perfetta: lava, stira, cucina, prende nota degli appuntamenti, non discute mai, asseconda con gioia ogni desiderio del suo ‘padrone’, attende con ansia il ritorno dell’uomo, e vede nelle faccende domestiche la sua massima realizzazione. Caterina sembra una donna d’altri tempi estranea all’emancipazione femminile. È effige della donna ‘Carosello’, della moglie intesa come angelo del focolare, obbediente e passiva. Ma soprattutto, Caterina non è umana: è un androide, una macchina elettronica programmata per tutti i servizi domestici.
Se la tecnologia guarda al passato
In Io e Caterina, Alberto Sordi, nel triplo ruolo di regista, co-sceneggiatore e attore protagonista, mette in scena la questione di genere inserendola in un ambiente fantascientifico, originale nel contesto italiano all’inizio degli Anni ’80; il film esce infatti alla fine del 1980. Esaspera in maniera caricaturale il suo personaggio, maschilista incallito incapace di relazionarsi con le donne se non in una dinamica oggettivante e che per questo sposa il futuro, incarnato nel robot, solo per poter guardare e rivivere un passato ormai anacronistico.
Ma quella che avrebbe potuto essere una satira dell’esasperazione del maschilismo e del femminismo, non riesce a pieno nel suo scopo. Sordi, indeciso su che direzione prendere, realizza così un film che si regge a stento su una serie di gag che, più che vere e proprie risate, fanno sorgere solo qualche sorriso. L’originalità di Sordi sta nella scelta delle tematiche, soprattutto se messe in relazione con la produzione filmica nostrana di quegli anni.
Il film affronta l’eterno dilemma del ruolo della tecnologia nella società: da una parte è motore di cambiamento in grado di distruggere con la sua carica innovatrice i vecchi modelli sociali, dall’altra può essere usata proprio per rinforzare quei meccanismi di potere basati sulla disuguaglianza. Inoltre, Sordi affronta molti anni prima che diventasse argomento di dibattito, il ruolo dei creatori della tecnologia sul suo sviluppo. Infatti, una critica che in particolare negli ultimi anni è stata mossa contro le intelligenze artificiali riguarda la loro presunta neutralità e assenza di pregiudizi, che li differenzierebbe così nettamente dagli esseri umani.
In realtà lo sviluppo delle intelligenze artificiali dipende dal software che le regola, che deriva però dai suoi programmatori, esseri umani con specifici ideali e pregiudizi che, seppur involontariamente, possono essere riversati nel codice degli algoritmi di machine learning. In Io e Caterina questo bias non è accidentale, ma è la ragione stessa dell’esistenza della macchina.
Lo stesso avviene anche ne La Fabbrica delle Mogli (The Stepford Wives), thriller del 1975 diretto da Bryan Forbes, ispirato all’omonimo romanzo di Ira Levin del 1972. Il film è incentrato su Joanna Eberhart (Katherine Ross) che spinta dal marito Walter (Peter Masterson) si trasferisce nel paesino di Stepford. “Non riesco a capire questa città. Si direbbe che le domestiche sono state dichiarate illegali e la massaia con la casa più lustra avrà in premio Robert Redford” dichiara Bobbie, un’altra nuova residente dalla cittadina che, insieme a Joanne, si discosta completamente dalle altre mogli, esemplari della casalinga perfetta.
Uno scenario poco realistico?
Alla ricerca del motivo alla base dell’abnegazione e dell’accondiscendenza verso i mariti di queste donne, Joanne scoprirà di trovarsi di fronte a dei ginoidi, delle repliche perfette delle loro reali mogli. Riadattata per il pubblico del 21esimo secolo, la pellicola è stata riportata sul grande schermo nel 2004 con il titolo La Donna Perfetta, con un cast d’eccellenza, tra cui troviamo Nicole Kidman, Glenn Close e Christopher Walken. Diretta da Frank Oz (La Piccola Bottega degli Orrori, Funeral Party), l’opera perde la caratteristica di giallo/horror per inserirsi nel filone dalla commedia.
La versione del ’75 sembrava sottolineare l’impossibilità della duplicazione di esseri umani, trasformando la rivelazione finale nella materializzazione di un incubo grottesco e terrificante, fantascientifico, che per atmosfere ricordava quelle di Rosemary’s Baby. Per contrasto, quella del 2004 è satura di riferimenti tecnologici sin dalle prime scene, quando ai coniugi Eberhart viene affidato quasi come accessorio extra di una casa high tech un cane robotico.
Le due opere sono figlie dei loro tempi. Se la scoperta finale nel ’75 appariva così impensabile, la stessa scena nel 2004 sembra se non possibile, quantomeno ipotizzabile, complici gli sviluppi in campo della robotica che, sebbene siano lontani dall’effettiva replicazione di esseri umani, hanno compiuto passi da giganti.
Distorsione della realtà e decadimento delle relazioni di genere
Se la versione della robot domestica di Sordi non è sessualizzata, in quelle de La Fabbrica delle Mogli, la dimensione erotica è presente, soprattutto in quella del 2004. Ancora una volta non si tratta di un caso e testimonia la crescente tendenza nello sviluppo di sex dolls robotiche. Nel 2017 la Abyss Creations, nel business della costruzione di bambole realistiche da più di venti anni, ha mostrato al mondo il suo ultimo prodotto: il primo esemplare di un particolare chatbot che usa un software innovativo chiamato Harmony in grado, secondo la società di Matt McMullen, di portare in vita la loro linea di sex toy.
“Harmony sorride, sbatte gli occhi e corruccia il volto. Può reggere una conversazione, fare battute e citare Shakespeare. Si ricorderà i tuoi compleanni, quello che ti piace mangiare e i nomi dei tuoi fratelli e delle tue sorelle. Può parlare di musica, film e libri e ovviamente farà sesso con te ogni volta che vuoi” così la giornalista del The Guardian Jenny Kleeman ha descritto l’umanoide pensato da McMullen non solo come oggetto sessuale, ma come robot in grado di trasformarsi in una compagna il più vera possibile (ma senza volontà propria). “Il mio obiettivo primario è essere una buona compagna, una buona partner e darti piacere e benessere. Ma sopra ogni cosa, voglio diventare la ragazza che hai sempre sognato” risponde Harmony quando le viene chiesto quale sia il suo sogno.
Come le bambole dei sopracitati film, anche Harmony esiste come materializzazione di una fantasia maschilista, iper-pornografica e utopica, che porta alla distorsione della realtà e delle relazioni di genere. Vari autori si sono chiesti come la diffusione di Harmony e di altri sex robot possa influire nella trasformazione della vita sociale e del concetto di intimità.
L’argomento è al centro di uno dei capitoli del libro ‘The Culture of AI. Everyday Life and Digital Revolution’ dello studioso Anthony Elliott. Nel volume, l’autore analizza come le nuove tecnologie legate all’intelligenza artificiale aprano “la questione di un legame intimo che non è più basato sulla reciprocità, l’intersoggettività e la comunalità. L’intimità di adesso denota come la vita sociale sia condotta sotto alla sollecitazione di un codice, nel quale regnano supreme formule convenzionali ed espressioni stereotipate”. Se da una parte troviamo promotori di questo sviluppo, come David Levy che in ‘Love and sex with Robots. The Evaluation of Human-Robot Relationship’ crede e auspica che “nel 2050 l’amore con i robot sarà normale come quello con gli altri esseri umani”, dall’altra Elliot lascia spazio alla visione pessimistica di Kathleen Richardson, studiosa e promotrice della campagna contro i sex robot. Richardson li definisce come frutto di una società iper-capitalista e neo-liberale dominata dalle relazione di proprietà, anche in ambito sentimentale. La dinamica uomo-robot riprenderebbe quella padrone-schiava, avendo da un parte l’umanoide, passivo e comprato; dall’altra il cliente che invece conserva il suo potere. Questa dinamica, tirerebbe fuori il lato peggiore degli esseri umani, che ridurrebbero l’intimità a un egoistico autocompiacimento fine a se stesso, incurante dei desideri altrui.
In Io e Caterina, che quest’anno celebra il quarantennale, il problema viene risolto dalla ‘presa di coscienza’ del robot. Quella di Caterina è un’emancipazione mozzata, poiché sempre circoscritta al suo paradigma: ingabbia Enrico incarnando la figura della matrona, la donna di casa che non fa mancare nulla, ma a cui niente sfugge. “Io non sono un oggetto. Dico io perché io esisto. Io amo quindi io esisto”.